Come conoscere e allenare la propria “voce originale” in azienda
La persona con una “Executive Presence” allenata ha sviluppato un’alta capacità di mettere a fuoco i dettagli ma anche una visione d’insieme
di Veronica Giovale *
4' di lettura
L’Executive Presence, ovvero la propria voce originale, è una competenza richiesta dalle aziende e un fattore distintivo delle persone. Questa competenza è formata da molteplici fattori che si sintetizzano nella “presenza” di una persona quando, per esempio, entra in uno spazio e viene percepita ancora prima di pronunciare qualsiasi frase di senso compiuto.
La persona con una Executive Presence allenata è centrata, ovvero sa percepire e interagire con se stessa, con le altre persone e con l’ambiente. Ha sviluppato un’alta capacità di mettere a fuoco i dettagli ma anche una visione d’insieme. In aggiunta, la persona sa contestualizzarsi ed entrare in risonanza con ciò che accade a livello locale e globale. Sa intercettare i propri bisogni e le proprie fragilità e, di conseguenza, quelle degli altri.
Grazie a questa competenza si instaurano relazioni basate sulla reciprocità e si diventa dei role model di riferimento capaci di stimolare l’autonomia delle persone.
Avendo l’opportunità di ideare e gestire, insieme a due colleghe newtoniane, percorsi di empowerment e di empowerment di genere all’interno dell’ambito DEI (Diversity Equity&Inclusion), noto però una crescente tendenza, sia da parte delle aziende sia dei ruoli manageriali, di semplificazione dell’essere umano. Una lettura quasi meccanicistica, che porta ad una crescente difficoltà a relazionarsi in maniera autentica ed efficace, in primis con se stessi e, di conseguenza, con le persone che si gestiscono.
A questo proposito si ricorda il malessere diffuso, in questo momento storico, all’interno delle aziende e della società. Una sofferenza che si manifesta in vari modi e attraverso fenomeni chiamati Great Resignation, Quite Quitting, Loud Quitting, oltre che Burnout.
I ruoli manageriali sono coinvolti in molteplici esperienze formative, spesso innovative, dove per esempio si dovrebbero imparare le tecniche di comunicazione efficace, quelle per gestire le persone, quelle per dare un feedback, e così via, ma poi le persone, nelle indagini di clima, nei focus group e attraverso altri strumenti aziendali di ascolto, affermano di non ricevere feedback, di essere insoddisfatte, di non esprimere i propri bisogni e talenti, di non avere chiaro dove bisogna andare, come bisogna farlo e perché.
La difficoltà di conoscere l’essere umano
In sintesi, si ha una consistente conoscenza teorica e tecnica mentre scarseggia la conoscenza organica e complessa del funzionamento umano e del contesto nel quale si interagisce. Tutto deve essere riconducibile a regole, best practice e deve essere misurabile, controllabile, ripetibile, prevedibile e così via. Su alcuni aspetti e situazioni ha senso utilizzare questi parametri di indagine e di valutazione, ma riportarli sull’essere umano può rivelarsi totalmente limitante, parziale e addirittura mortifero.
Immersi in questo paradigma meccanicistico e riduzionista, dove si allenano quasi esclusivamente aspetti legati alla razionalità e alla sfera cognitiva degli esseri umani, non si dedica tempo alla sperimentazione personale e collettiva di dimensioni legate all’incertezza e all’ignoto. Condizioni intrinsecamente connaturate all’esistenza umana e quindi anche al mondo aziendale. Questo ha certamente delle conseguenze di varia natura. Volendone citare una, per esempio, non ci si appropria dell’unicità, della specificità e dell’irrepetibilità del processo di apprendimento di ogni persona.
L’Executive Presence dovrebbe essere una competenza base stimolata e ricercata da ogni azienda perché rappresenta un fattore qualitativamente differenziante. Se allenata a livello personale e collettivo potrà essere estesa, in maniera del tutto naturale, ai molteplici ruoli che le persone sono chiamate a interpretare.
Il mondo artistico, e altri mondi, possono aiutare il mondo aziendale in questa direzione.
A questo proposito si citano due riferimenti internazionali in campo recitativo, e non solo, Uta Hagen e Anton Checov. La prima, attrice e regista dei primi del ‘900, scrive un testo in cui domanda se i ruoli che attori e attrici interpretano sono rappresentativi o presentativi. Il ruolo rappresentativo sceglie di imitare o illustrare il comportamento del personaggio e, se vogliamo, di citare un’esistenza. Gli attori o le attrici che invece scelgono di interpretare ruoli presentativi si occupano di “rilevare il comportamento umano attraverso l’uso di se stessi, attraverso una comprensione di sé e di conseguenza del personaggio che si interpreta.” È la ricerca di una esperienza soggettiva dove si è protagonisti.
I manager si occupano di rappresentare o presentare?
Attualmente ci si muove maggiormente sulla rappresentazione, ovvero le persone si limitano a riprodurre schemi di comportamento proposti dalla cultura e dai processi aziendali di riferimento.
Anton Checov, scrittore e drammaturgo che ha rivoluzionato il modo di descrivere e mettere in scena i personaggi dei suoi racconti, attribuendo una dimensione psicologica e di verità ai personaggi, rivolgendosi ad attrici e attori afferma: “se vuoi lavorare sulla tua arte prima devi lavorare sulla tua vita”. Quindi se si vogliono interpretare ruoli, i più disparati, si ha bisogno di conoscere sé stessi attraverso un training psicofisico continuo, capace di allenare la propensione all’ignoto, all’incertezza e all’ascolto profondo di se stessi e degli altri.
A partire da queste suggestioni bisognerebbe domandarsi quanto allenamento, all’interno delle aziende, le persone, a tutti i livelli, dedicano alla propria esistenza, alle proprie credenze limitanti o potenzianti, quanto riconoscono i propri bias, quanto sanno intercettare le fragilità, quanto si percepiscono in divenire o quanto invece sono cristallizzate riproducendo ruoli rappresentativi ovvero senza “presenza”.
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