Bussola & Timone

Come deve cambiare la governance Ue in tempo di guerra

di Giovanni Tria

(Adobe Stock)

4' di lettura

L’Unione europea, e con essa l’Italia, è entrata in guerra, seppure per ora solo economica, per contrastare l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. Non sappiamo quale sarà l’evoluzione e la durata della guerra “militare” sul campo e non ne conosciamo gli esiti, cioè le condizioni della futura pace. Allo stesso modo, non sappiamo la durata e gli esiti della guerra economica in cui l’Europa si è impegnata ed è difficile valutare le sue conseguenze di medio-lungo periodo e come salvare il possibile della globalizzazione. Ma la Ue non ha molto tempo per decidere come governare nell’immediato una guerra economica. Il tema riguarda non solo i governi nazionali che devono aggiustare le politiche di bilancio ma riguarda fortemente la governance economica europea, monetaria e fiscale. È bene riassumere i termini della questione.

Prima della guerra, la crisi energetica era già presente, come lo erano le articolate carenze di offerta di materie prime e di vari input intermedi che avevano portato l’inflazione vicina al 6 per cento. In direzione opposta a quelle riguardanti l’inflazione già si muovevano le previsioni circa il tasso di crescita atteso per l’anno in corso. In Italia, ma non solo, si poneva già, quindi, un problema redistributivo. Il maggior costo dei beni importati, a partire da quelli dell’energia, doveva essere ripartito tra imprese, famiglie e Stato. Ma l’intervento dello Stato in aiuto alle famiglie e alle imprese significa redistribuirne il costo tra tutti i contribuenti e decidere se farlo pagare subito o nel futuro, ricorrendo a ulteriore debito. Una scelta, quest’ultima, in ogni caso condizionata dalla possibilità di farlo a condizioni accettabili, cioè senza destare preoccupazioni nei sottoscrittori di un debito consistente come quello italiano. Ciò dipende certamente dalla credibilità dello Stato che emette il debito, ma anche dalla politica monetaria, cioè dalla disponibilità della Bce a continuare la politica di sostegno ai debiti sovrani adottata nel corso della pandemia, politica che era prevista al contrario affievolirsi nel corso dell’anno. Tant’è che, prima della guerra, la discussione verteva sulla necessità o meno di anticipare l’uscita dalla politica monetaria accomodante proprio per contrastare l’inflazione. Questa era la posizione dei cosiddetti “falchi”, in Germania e in altri Paesi nordeuropei.

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Abbiamo sostenuto in questa rubrica che sarebbe stato un grave errore perché il contrasto ad una inflazione determinata dal lato dell’offerta doveva essere compito non della politica monetaria ma della politica fiscale, in due modi. Il primo era quello avviato dal governo, cioè compensare parzialmente famiglie e imprese per gli aumenti dei prezzi energetici, anche al fine di scongiurare il conflitto distributivo che porta alla spirale prezzi-salari. Il secondo dovrebbe consistere nel correggere i programmi di spesa, anche quelli di investimento, per non sovraccaricare la domanda in settori già affetti da carenza di offerta. Infine, in Europa si iniziava a discutere sulla possibile riforma delle regole fiscali europee che molti, e tra questi il governo italiano, auspicavano dovesse accompagnare la fine della sospensione del Patto di stabilità e crescita. È passato solo un mese e con la guerra il mondo è cambiato. Il futuro ci dirà di quanto e se saremo in grado di non farlo peggiorare troppo. Ma per il presente sono evidenti due fatti. Il primo è che le questioni di cui si discuteva con dubbi e incertezze ora non lasciano margini. La crisi energetica e gli altri approvvigionamenti scarsi che alimentavano l’inflazione sono oggi problemi enormemente più gravi. Aumenterà quindi l’inflazione e al tempo stesso la crescita si sgonfierà e la recessione è dietro l’angolo se la guerra continuerà. Ma i termini dei problemi così come esposti con riferimento ai mesi precedenti la guerra non sono cambiati, anche se talmente più forti sul piano quantitativo da cambiare anche sul piano qualitativo. L’inflazione maggiore richiederà un aumento della spesa pubblica che si aggiungerà a quello diretto del costo della difesa e della riconversione energetica, e si dovrà decidere chi ne pagherà il costo. Si dovrà decidere anche quale spesa tagliare. Si vedrà se il Pnrr dovrà essere coinvolto per alcune parti. Ugualmente rimane sbagliato rispondere all’inflazione in salita con una restrizione monetaria perché significherebbe contrastarla rafforzando il rallentamento dell’economia. Sarebbe bene che la Bce dicesse chiaramente quali sono le sue intenzioni e varasse un programma specifico di sostegno ad una spesa pubblica che non potrà ridursi nel corso di una guerra. Le decisioni in tal senso della Bce sarebbero facilitate se anche la Ue si rendesse capace di un salto di qualità, non soltanto rimandando la sospensione del PSC o riformando le sue regole, ma dotandosi di una capacità fiscale centrale e quindi di un’autorità fiscale europea in grado di coordinarsi con la Bce. Dopo il Next Generation Eu, si tratta di sostenere le decisioni di guerra economica, e anche le spese militari, con un governo economico europeo in grado di rendere sostenibili, e quindi credibili, le decisioni prese unitariamente, almeno sulla carta, emettendo debito aggiuntivo comune. La credibilità paga sempre, ma è fondamentale in guerra. E l’Europa è in guerra, seppure economica, almeno per ora.

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