Come sarebbe il mondo, oggi, senza Facebook?
Come funziona il condizionamento operante, la tecnica più potente che le imprese digitali utilizzano per farci rimanere attaccati ai nostri schermi
di Vittorio Pelligra
9' di lettura
Senza Facebook saremmo più informati o meno informati? Più socievoli o meno? Più o meno fiduciosi nei confronti degli altri e delle istituzioni? E politicamente saremmo più moderati o polarizzati? Certo non conosceremmo il “Groumpy Cat” e ci saremmo evitati la “broomstick challenge”, ma questo ci avrebbe reso più o meno felici? Sono domande alle quali è particolarmente difficile dare una risposta oggettiva, perché Facebook c’è e per valutare il suo effetto su tutte queste variabili dovremmo poter confrontare questo mondo, con il suo “controfattuale”, un mondo, cioè, nel quale il social non esistesse.
L’avvento della Rete e dei social ha rappresentato un progresso enorme per la possibilità che gli esseri umani hanno di connettersi, di entrare in relazione l’uno con l’altro, di condividere esperienze e conoscenze. Ma forse questo progresso impone dei costi che ancora troppo facilmente siamo portati a sottostimar e. Qualche anno fa lo stesso Zuckerberg ha sentito la necessità di modificare ufficialmente la mission della sua impresa. Originariamente Facebook era nata per “Rendere il mondo più aperto e connesso”. Bello, indubbiamente! Ma ad un certo punto si è capito che apertura e connessione, di per sé, non sono obiettivi positivi; possono semmai essere pre-condizioni necessarie affinché qualcosa di buono avvenga; pre-condizioni necessarie ma non certo sufficienti. Ecco perché oggi la mission ufficiale con la quale l’azienda Facebook si presenta ai suoi investitori è quella di “Dare alle persone il potere di costruire una comunità e di rendere il mondo più vicino”. Anche su questo ci sarebbe molto da dire. I social, e Facebook in primis, hanno rappresentato una rivoluzione pari solo, forse, all’avvento della televisione.
Miliardi di persone connesse a una rete globale che veicola ogni secondo un’infinità di contenuti e raccoglie, contemporaneamente, un’infinità di informazioni relative alla nostra vita, ai nostri gusti, alle nostre interazioni. Informazioni che raccoglie e poi rivende a società che aggregano, organizzano e riutilizzano queste informazioni per mandarci messaggi personalizzati su cosa comprare, chi votare, cosa pensare. Facebook agisce, contemporaneamente, da canale di raccolta delle informazioni e come mezzo di distribuzione dei contenuti pubblicitari e informativi.
Più navighiamo, più dati lasciamo, più Facebook guadagna. Più navighiamo, più pubblicità assorbiamo, più gli inserzionisti di Facebook guadagnano. Hanno tutti un unico interesse, tenerci incollati allo schermo. Nasce così una vera e propria “economia dell’attenzione”, un nuovo modello di business che ha bisogno di tecniche e di strumenti, vecchi e nuovi, che massimizzino la nostra permanenza online. Più noi navighiamo, più loro guadagnano.
Ecco perché il confine tra marketing, persuasione e creazione di dipendenze, in questi anni, è andato pericolosamente sfumando. La tecnica più potente che le imprese digitali utilizzano per farci rimanere attaccati ai nostri schermi è, certamente, quella del “condizionamento operante”. Un processo psicologico di apprendimento studiato alla fine degli anni ’40 dallo psicologo comportamentista Burrhus Skinner. Con l’aiuto di piccioni e ratti, Skinner voleva comprendere le dinamiche di apprendimento basate sull’associazione di stimoli e comportamenti. Fino ad allora ci si era concentrati principalmente su una forma di condizionamento “rispondente”: l’organismo che reagisce alla presenza di uno stimolo nell'ambiente. I cani di Pavlov, per esempio, che iniziano a salivare quando viene presentato del cibo.
Skinner fa un passo avanti e inizia a indagare quei comportamenti che non sono causati dall’apparire di uno stimolo, ma che, al contrario, causano l’apparire dello stimolo stesso: il piccione che preme la leva per ottenere la pallina di cibo. Lo stimolo non è più causa del comportamento, ma sua conseguenza. Alcuni stimoli vengono ricercati, mentre altri evitati. I primi rinforzano il comportamento, i secondi lo fanno estinguere. Nella sua ricerca Skinner cercò, poi, di capire in che modo somministrare questi rinforzatori per renderli più efficaci per far diventare abituali i nuovi comportamenti appresi. Qui fece una scoperta sorprendente: tanto più il legame tra comportamento e stimolo è imprevedibile e casuale, tanto più tale comportamento diventerà necessario e impellente per i soggetti. È lo schema psicologico che sta alla base della slot machine, dell’apparentemente più innocuo gratta-e-vinci e, oggi, anche dell’economia dell’attenzione. È ciò che sta alla base dell’insorgenza delle dipendenze comportamentali.
La ricerca della ricompensa diventa così importante che il soggetto difficilmente riesce a farne a meno, anche se il beneficio che ne ricava è basso e i costi associati possono essere, invece, molto alti. Sono processi che fanno leva su meccanismi primordiali e potentissimi. Sono strumenti da maneggiare con estrema cautela. È diventato emblematico, in questo senso, il caso di “Flappy Bird”, un piccolo videogioco per smartphone, apparso negli store, senza nessun clamore, il 23 maggio del 2013. Per mesi non accadde nulla; pochi download, poche recensioni. Fino a quando, all’inizio del 2014 l’app esplose inspiegabilmente, raggiungendo il primo posto nella classifica delle app più scaricate negli Usa. Milioni di download giornalieri e guadagni da 50.000 dollari al giorno per il suo programmatore, Dong Nguyen, un giovane vietnamita, fino ad allora del tutto sconosciuto. Un trionfo planetario.
Eppure, ad un certo punto, qualcosa si rompe. L’8 febbraio Nguyen twitta: «Flappy Bird è un successo, ma sta anche rovinando la mia vita. Lo odio». A chi gli chiede spiegazioni, risponde: «Non odio il successo, ma come la gente sta usando il mio gioco. È diventato un’ossessione». Quello stesso giorno, Nguyen decide di eliminare il gioco da tutti gli store digitali: «Scusate, giocatori di 'Flappy Bird', non ce la faccio più». Erano passati appena 28 giorni da quando il gioco aveva toccato la vetta della classifica delle app più scaricate. Molti pensarono a una mossa pubblicitaria per preparare il lancio di una nuova versione del gioco, ma 'Flappy Bird', da allora, non è mai più apparso sul web.
Qualche tempo dopo, rintracciato da un reporter della rivista “Forbes”, Dong Nguyen semplicemente affermò di aver immaginato l’app come «un gioco al quale giocare per pochi minuti in cerca di un po’ di relax. Ma in realtà ha iniziato a produrre una vera e propria dipendenza ed è diventato un problema. Per risolvere quel problema ho pensato fosse meglio eliminare il gioco».
Era successo che un piccolo gioco, ma basato su una tecnologia fortemente “addictive”, aveva scatenato nel giro di pochi mesi un’incontrollata epidemia di dipendenza comportamentale. Una vera ossessione con diffusi episodi di isteria, panico, frustrazione ed esplosioni di rabbia e aggressività. È il condizionamento operante che sostanzia la possibilità di spingere la persone a fare cose che, a ben vedere, sarebbero più contente di non fare.L’economia dell’attenzionesi fonda su strumenti come questi, sfruttando motivazioni profonde e istinti primordiali.
Ecco perché è tutt’altro che banale chiedersi se un mondo senza Facebook sarebbe migliore, più libero, meglio informato e più coeso, oppure no. Cercare di valutare, cioè, il valore sociale dei social. Su questo punto le opinioni dei ricercatori sono molteplici, perché, naturalmente, il problema è complesso. Da una parte, sappiamo bene che le relazioni interpersonali sono una delle determinanti principali del benessere individuale, e quindi è plausibile che una maggiore connessione possa avere un impatto positivo, ma dall’altra sappiamo anche che la perdita di fiducia che spesso deriva dall’esposizioni a scambi conflittuali sul web ha, invece, un effetto negativo sul nostro benessere.
Molti hanno evidenziato, poi, il ruolo dei social nel favorire la polarizzazione politica e nell’acuirsi di posizioni estreme, senza parlare del fatto che i social sono il luogo principale attraverso cui viene veicolata la disinformazione, sia quella sporadica e casuale, che quella finalizzata e coordinata ad arte.
Rispondere in maniera precisa a queste domande è difficile, abbiamo detto, per la mancanza di un “controfattuale”. Eppure, non è impossibile. Ci hanno provato quattro economisti delle università di Stanford e New York (Allcott, H., Braghieri, L., Eichmeyer, S., Gentzkow, M., 2020. “The Welfare Effects of Social Media”. American Economic Review, 110(3), pp. 629–676), attraverso un ingegnoso esperimento basato sulla metodologia dei “randomized trials”, la stessa che abitualmente viene utilizzata per valutare l’efficacia di un farmaco sperimentale e che, da qualche anno, viene adottata anche per misurare l’efficacia delle politiche pubbliche o di differenti approcci alla riduzione della povertà. Proprio per queste ultime applicazioni alle politiche contro la povertà, Ester Duflo, Abhijit Banerjee e Michael Kremer, si sono visti assegnare, l’anno scorso, il premio Nobel per l’economia.
Qualche tempo prima delle elezioni di mid-term del novembre 2018, i ricercatori di New York e Stanford hanno reclutato, attraverso un avviso su Facebook, 2743 volontari per il loro esperimento. Un gruppo di questi, estratto casualmente, è stato pagato per disattivare il proprio profilo social per quattro settimane, fino a poco dopo le elezioni. Durante le quattro settimane il comportamento dei partecipanti “disconnessi” è stato analizzato sotto molteplici dimensioni e poi messo a confronto con quello dei partecipanti a cui non era stato chiesto di disattivare il profilo social. Una prima serie di questioni prese in considerazione nello studio riguarda il rapporto tra uso dei social e interazioni sociali off-line. Davvero l’uso dei social scoraggia l’incontro con gli altri e fa aumentare solitudine e depressione, come sostengono alcuni?
I dati sperimentali mostrano, innanzitutto, che i “disconnessi” usano meno anche gli altri social e dedicano più tempo ad attività sociali con amici e familiari. Per quanto riguarda l’accesso alle notizie di stampa, questo non si riduce in termini di qualità, ma in termini di quantità: i partecipanti spendono il 15% di tempo in meno alla ricerca di news. Questo fatto ha conseguenze soprattutto in ambito politico. Sono infatti le informazioni politiche ad essere meno ricercata nel momento in cui non si accede più ai social e, in generale, si nota una riduzione di interesse per il dibattito politico. Questo fatto, però, sembra non avere nessun effetto negativo in termini di impegno civico.
La partecipazione alle elezioni di mid-term, infatti, non è stata significativamente differente tra i “connessi” e i “disconnessi”. Una terza dimensione di analisi ha riguardato la sfera del benessere soggettivo. In questo caso i “disconnessi” hanno dichiarato di essere significativamente più felici rispetto ai “connessi”, più soddisfatti della loro vita, in generale, di essere meno ansiosi e di sentirsi meno depressi. L’ampiezza di questo effetto, giusto per avere un’idea, equivale a circa un quarto del miglioramento prodotto da forme di intervento psicologico tradizionali, quali la terapia individuale, di gruppo, o altre forme di self-help. Un ultimo risultato di grande interesse riguarda il fatto che l’astensione per quattro settimane dall’uso dei social, produce una persistente riduzione nella disponibilità all’uso futuro di Facebook. Le persone si sono “disintossicate” e dopo quattro settimane senza social non ne sentono più la necessità. Questo è uno degli elementi che evidenzia la natura “addictive” delle tecnologie persuasive che caratterizzano l’economia dell’attenzione. È importante notare che, grazie all’uso della metodologia dei randomized trials, possiamo affermare che i risultati dello studio non mettono in luce una correlazione tra uso dei social e condizioni soggettive, ma un vero e proprio nesso causale. Ciò significa che l’interruzione dell’uso di Facebook rappresenta la causa di tutte quelle modificazioni rilevate nello studio.
Ma allora i social aggiungono valore o no alla nostra vita, come persone, e a quella delle nostre comunità? Per rispondere a domande come queste, gli economisti, abitualmente utilizzano l’analisi costi-benefici. Calcolano, cioè, il valore che i consumatori, complessivamente, attribuiscono ad un certo bene e servizio e lo confrontano con i relativi costi. Ma nel caso di tecnologie di questo tipo la valutazione che viene data dai singoli è spesso distorta dalla natura “addictive” del prodotto. Christina Sagioglu e Tobias Greitemeyer, per esempio, hanno dimostrato, con un campione di utenti di Facebook, che nonostante questi fossero convinti che l’uso, anche moderato, del social provocasse un aumento del loro benessere soggettivo, nei fatti li rendeva più infelici (“Facebook's Emotional Consequences: Why Face- book Causes a Decrease in Mood and Why People Still Use It.” Computers in Human Behavior 35: 359–63, 2014).
Hunt Allcott e i suoi colleghi hanno chiesto ai partecipanti allo studio quanto li si sarebbe dovuti pagare per rinunciare all’uso di Facebook, sia prima all’inizio delle quattro settimane di “disconnessione”, sia alla fine. Inizialmente hanno ottenuto cifre comprese tra i 100 e i 180 dollari. Calibrando queste somme per i 170 milioni di utilizzatori negli Usa si ottiene un surplus per i consumatori pari a 31 miliardi di dollari. Prendendo, però, in considerazione il valore attribuito all’uso del social, alla fine delle quattro settimane di “disattivazione” la valutazione complessiva si riduce del 14%.
Nel loro complesso questi risultati mostrano che l’uso dei social, e di Facebook in particolare, ha un ampio valore sociale che può essere quantificato sulla base di quanto gli utenti vorrebbero essere pagati per rinunciare all’uso. Mostrano anche, però, che questo valore è alterato dalla natura “addictive” di queste tecnologie. Gli utenti attribuiscono un valore eccessivo alla loro vita sociale online perché faticano a farne a meno e questo ha, chiaramente, degli effetti negativi sul loro benessere e sulla qualità delle loro relazioni reali.
Stiamo passando, o forse siamo già passati, dal dominio della biopolitica di Michel Foucault, che ha segnato l’era del capitalismo industriale, a quello della psicopolitica, teorizza dal filosofo coreano Byung-Chul Han, funzionale al capitalismo della sorveglianza. Un’epoca pervasa da «un potere intelligente, dall’aspetto liberare, benevolo, che invoglia e seduce – e quindi – più efficace del potere che ordina, minaccia e prescrive. Il “like” è il suo segno: mentre consumiamo e comunichiamo ci sottomettiamo al rapporto di dominio (…) Gli abitanti del panottico digitale comunicano intensamente l’uno con l’altro e si denudano volontariamente. Così, la divulgazione dei dati non avviene in maniera costrittiva, ma risponde ad un bisogno interiore (…) Il potere intelligente legge e interpreta i nostri pensieri consci e inconsci. Esso vuole dominare cercando di piacere e creando dipendenze» (“Psicopolitica”, Edizioni Nottetempo, 2016). Esserne consapevoli è condizione necessaria per preservare spazi sempre maggiori di autonomia e di libertà vera.
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