Come sta l’industria italiana del videogioco? Cresce ma troppo poco
Presentato il nuovo censimento di Iidea sugli sviluppatori italiani di videogiochi. Numeri piccoli ma le prospettive di crescita ci sono
di Luca Tremolada
I punti chiave
3' di lettura
L’Italia consuma videogiochi per 2,17 miliardi di euro e ne produce per 80-90 milioni. In questa forchettà c’è un pezzo della fotografia di una industria che non si è fermata nell’anno del lockdown ma continua a faticare a compiere un salto di qualità. Questa è la prima delle conclusione che emerge dal il nuovo censimento dei game developer italiani presentato oggi da Iidea (Italian Interactive Digital Enterainment Association) l’associazione di categoria dell’industria del videogioco. Si tratta del quinto censimento realizzato dopo le precedenti edizioni del 2011, del 2014, del 2016 e del 2018. La rilevazione quantitativa è stata condotta mediante un questionario online, attivo dal 24 febbraio al 1° aprile 2021. Sono arrivate 160 risposte al Censimento, tra i rispondenti possiamo contare oltre 90 imprese collettive di sviluppo di videogiochi e oltre 60 imprese individuali, liberi professionisti e altre forme organizzative.
Numeri piccoli di una industria con ampi margini di crescita
Se volessimo vedere solo il bicchiere mezzo pieno potremmo dire che in due anni complicati come gli ultimi qualcosa si è mosso.I professionisti impiegati nella produzione di videogiochi in Italia sono oltre 1600, rispetto ai 1100 del 2018. E’ cresciuto il numero delle imprese con oltre 500 mila euro di fatturato annuo e con oltre 20 dipendenti. Che sei aziende su dieci pianifica di assumere nuovo personale nei prossimi due anni. E che la demografia d’impresa non è stata severa con ben il 70% delle aziende sopravvissute negli ultimi quattro anni. «Siamo ancora piccoli come industria - ha commentato nel corso della conferenza onlin Luisa Bixio, amministratore delegato di Milestone -. Se guardiamo fuori dall’Italia ci accorgiamo che potremmo essere dieci volte più grandi sia come impatto occupazionale che di business. Sono fermamente convinta che gli sviluppatori italiani sono bravi come e forse di più degli altri dei Paesi europei. Lo dimostra il fatto che siamo cresciuti anche in condizioni non facili. Quella che è mancata è la corretta percezione del videogioco».
Impatto del Covid-19 sul settore.
Come effetto negativo della pandemia, le imprese, si legge nel censimento, hanno segnalato principalmente ritardi nella chiusura dei contratti con editori, investitori e partner e nell'esecuzione dei progetti. Per la maggior parte delle imprese il lavoro da remoto non ha avuto effetto o ha avuto un effetto positivo sul business e quasi il 70% delle stesse continuerà ad utilizzare questa modalità di lavoro nel futuro. Il settore ha mostrato una grande capacità di adattamento alle restrizioni imposte dall'emergenza sanitaria e un elevato livello di flessibilità nella forza lavoro.
Le prospettive degli sviluppatori indipendenti italiani
Una crescita di dimensione c’è quindi stata. Se due anni fa otto su dieci erano micro-imprese con fatturati marginali adesso un terzo delle imprese rientra oggi nella definizione di Pmi (+10 dipendenti) e un quinto ha più di 20 dipendenti. Quello che non va è il contesto che è migliorato ma non abbastanza. Ricordiamo il recente introduzione del «First Playable Fund» che è giudicato dall’associazione «un passo nella giusta direzione» ma il primo round di finanziamenti non è ancora partito e la misura necessita di essere rifinanziata su base pluriennale (almeno 5 anni) e rafforzata, sulla scorta di quanto fatto da altri paesi europei, con un'allocazione di risorse pari ad almeno € 10 milioni all'anno. O anche il tax credit per la produzione di videogiochi introdotto nella «Legge Cinema», ma mai implementato a causa della mancanza del relativo decreto attuativo da parte del Ministero della Cultura (MIC). L’attenzione della politica sembra aumentata, più benevola rispetto alla ritrosia degli ultimi anni verso il videogioco inteso come prodotti culturale ma al dunque l’impressioni è che si preferisca favorire mercati dell’intrattenimento diciamo più tradizionali. Manca in questo un ecosistema di investimento paragonabile a quello delle startup del digitale. La grande maggioranza delle imprese fa ancora ricorso al capitale proprio per finanziare la propria attività (93% vs 88% del 2018).
La qualità manageriale dei piccoli
Ma più di tutto serve un innesco per liberare una capacità imprenditoriale e manageriale che manca a questa nuova classe di game designer. La sensazione è che per il fare il balzo in avanti servano unicorni per usare un termine proprio delle startup, campioni nazionali capaci di sfondare sui mercati internazionali. Serve quindi capacità imprenditoriale per superare la dimensione del piccolo “artigianato digitale”. Vale lo stesso discorso per le startup. Che però oggi almeno in Italia godono di una legislazione ad hoc. Il rischio più grande quindi che può correre questo mercato è quello di accontentarsi a restare “molto” italiano.
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