
Tra qualche sforbiciata alle singole voci di impegno finanziario, il nutrito pacchetto di incentivi alle imprese previsto dal programma Industria 4.0 prende corpo nella legge di bilancio 2018. A eccezione del finanziamento agevolato della “nuova Sabatini” sull’acquisto o leasing di macchinari in genere, l’orizzonte temporale dei bonus fiscali sugli investimenti in macchinari high-tech (super e iper-ammortamento) e sui crediti d’imposta alla R&S è limitato a uno-due anni, nella logica congiunturale di rilancio degli investimenti dopo la paurosa caduta del 30% dai livelli pre-crisi. Logica che il Mef si auto-impone per lo stringente vincolo di rientro dal debito: un vincolo severamente monitorato dalla Commissione Ue, a cui solo disinvolti commentatori pensano che il nostro governo potrebbe sottrarsi.
Resta comunque uno sforzo senza precedenti da parte del governo di dare un’impronta un po’ più strutturale a una politica industriale dominata dalla sfida della digitalizzazione dell’industria e dei servizi con cui le nostre imprese e i nostri territori si trovano a confrontarsi in presenza di crescente numero e potenza economico-tecnologica di concorrenti anche tra i cosiddetti Paesi emergenti, Cina in primis.
Per sottrarsi al rischio di bandi ministeriali, che l’esperienza italica segnala purtroppo come inefficienti (per complessità e ritardi cronici di implementazione) e soggetti ad arbitrio burocratico (ricorsi amministrativi a Tar e Consiglio di Stato), Industria 4.0 fa leva su incentivi quasi esclusivamente fiscali e automatici. Scelta del minor male? Forse, solo che così facendo la nostra politica industriale sta camminando su un sentiero divergente rispetto a quello ormai largamente praticato dei nostri maggiori concorrenti europei, per non parlare degli emergenti. Infatti incentivi fiscali automatici sganciati da qualunque indicazione prioritaria di ricerca “pre-competitiva”, in cui il settore privato è chiamato a partecipare aggregando imprese e centri di ricerca, rischiano (come i classici incentivi a pioggia) di incentivare comportamenti opportunistici, disperdendo i benefici senza generare massa critica di presidio competitivo sui mercati. I Paesi avanzati attorno a noi hanno da tempo raccolto la sfida europea dei vari Horizon 2020, Horizon 2030 e simili cornici del “Rinascimento industriale europeo”: si tratti di programmi come i 10 “progetti del futuro” nel quadro tedesco della High-Tech Strategie, o come la decina delle “Soluzioni industriali” francesi coordinate dal Conseil National de l’Industrie e coltivate negli istituti Carnot e nei “poli di competitività”, o come i britannici “Centri catapulta” specializzati, coordinati dall’agenzia governativa “Innovate UK” e programmati per crescere dagli attuali 10 a 30 nel 2030.
Non è casuale che in tutti questi casi di politica industriale, insieme “mission oriented” e “diffusion oriented”, in cui si mobilitano risorse equamente ripartite fra incentivo pubblico e finanziamenti a carico delle singole imprese e dei centri di ricerca partecipanti (a partire dalle università), ricorrono più o meno gli stessi grandi obiettivi tecno-economici e le stesse priorità di sviluppo della società: risparmio energetico con finalità ambientali, nuova manifattura additiva e interconnessa (Internet delle cose), reti intelligenti di trasporti e comunicazione nelle città e fra i territori (smart grids), nuovi materiali per usi domestici e industriali, bio e nanomedicina curativa e preventiva, difesa e sicurezza e così via. Non sono certo “piani di settore” di infausta memoria, ma mirano a mobilitare il settore privato con incentivi pubblici che riducono costi e rischi della ricerca di base (di cui le imprese innovative necessitano come il pane). Puntano a far nascere progetti di incubatori dove ricercatori ed esperti si confrontano da vicino con imprenditori e manager su attività di esplorazione scientifica e tecnologica, produzione di prototipi, sperimentazione e test, analisi della concorrenza, produzione e fruizione di brevetti. Con preziosi travasi di informazioni e conoscenze tra i partecipanti.
Calare questi schemi nel contesto imprenditoriale e istituzionale italiano non è certo impresa da poco, anche se già esistono esperienze interessanti e collaudate come ai Politecnici di Milano e Torino, al Sant’Anna di Pisa, al Federico II di Napoli, all’Iit di Genova. Soprattutto occorrerebbe più iniziativa delle aziende medio-grandi e delle stesse rappresentanze datoriali per lanciare e guidare veri tavoli di ricerca cooperativa pre-competitiva sostenuti al governo. Sarebbe bene guardare oltre gli schemi di semplice spartizione di benefici pecuniari tra imprese individuali, favorendo interconnessioni dentro il nostro tessuto produttivo estremamente frammentato. Suggeritori e protagonisti di questa nuova politica industriale possono e devono essere sempre più le imprese con le loro organizzazioni collettive.
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