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Commercialisti con l’arma in più dei big data

di Adriano Lovera

3' di lettura

Diventare consulente economico per le aziende, specializzato nell’analisi di big data. Un mercato ancora di nicchia ma promettente. Nulla di così rivoluzionario: si tratta di aggiungere un vestito nuovo alla figura di commercialista o esperto contabile, proprio quel professionista che già oggi tutti i giorni maneggia una mole enorme di dati e numeri provenienti da Pmi, attività artigianali fino a società individuali. Uno stock di clienti bisognosi, spesso senza saperlo, di una base di controllo di gestione che oggi gli studi possono fornire, a patto di accelerare sul digitale, con un po’ di formazione e con un cambio di mentalità.

«Il mercato inizia a comprendere che il commercialista non è solo il soggetto che chiude il bilancio e produce gli F24 per pagare le imposte, ma ha le carte in regola per accompagnare l’azienda in un percorso di crescita e di maggiore efficienza» sostiene Maurizio Grosso, consigliere con delega all’It del Consiglio nazionale dei commercialisti.

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Si parte dalla fattura
Elaborare i dati, dunque. Ma come? «Sovente si parla di big data, ma è un’espressione per il professionista un po’ sovradimensionata -spiega Grosso -. La base di partenza è la fattura, che oggi è digitale e in un formato standard xml che permette di elaborarla. Prima il commercialista caricava nel gestionale solo il dato fiscale, adesso traccia la descrizione, il prezzo e tante altre variabili».

A fare un esempio pratico è Claudio Rorato, responsabile scientifico dell’osservatorio “Professionisti e innovazione digitale” del Politecnico di Milano: «Si prende un settore, magari quello in cui lo studio è più ferrato, si possono incrociare i dati dei propri clienti con quelli dei concorrenti, facilmente reperibili in Camera di commercio, si confrontano con fonti esterne, tipo analisi di mercato, e si iniziano a delineare dei trend». Non solo: con la e-fattura si può capire quanto il cliente paga per le materie prime, per le utenze o per il personale. «E si può far notare al cliente - prosegue Rorato - che su determinate voci è posizionato male rispetto al settore, che ha una sacca di inefficienza da correggere». E questo è solo un risvolto. «Si può approfondire il lato fornitori -continua - guardando a puntualità e entità dei solleciti, così da elaborare un rating per ciascuno di questi, o anche soltanto spingere i clienti verso la digitalizzazione dei documenti interni, così da migliorare il ciclo degli ordini».

L’identikit

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Il percorso di studi
Per acquisire queste competenze non c’è un percorso universitario univoco. Per gli studenti, si può optare per un corso di laurea il più possibile affine con l’analisi dei dati, come ad esempio Economia che comprenda insegnamenti come “Metodi statistici per big data” (c’è ad esempio all’Università di Padova) e in generale, tutti i corsi in cui il controllo di gestione sia affrontato anche dal versante “business intelligence”. Occhio però a corsi di laurea come Data Science and Business Informatics, che spesso in realtà afferiscono all’area di Informatica e non sarebbero idonei per la pratica di commercialista. «Non dobbiamo trasformarci in data analyst, il nostro focus resta l’impresa», dice ancora Grosso.

Tra i corsi più indicati ci sono quelli in “Controllo di gestione” proposti da molte scuole di alta formazione regionali (Saf) legate all’Ordine dei commercialisti, di solito distribuiti su diversi mesi, ma con lezioni una volta alla settimana, per conciliare studio e lavoro. Poi occorre migliorarsi nell’uso dei software. «Il semplice Excel contiene funzioni che permettono di raggiungere ottimi risultati» testimonia Mario Maschietto, titolare di uno studio a Brugherio (Mi) con 4 collaboratori, a conferma che la rivoluzione è possibile anche nei “piccoli”. «In seconda battuta, si possono recuperare in Rete dei tool da integrare con il proprio gestionale. Ma non esiste alcun programma che inserendo i dati, come in un frullatore, restituisca con un click la soluzione a un problema». Perché i casi aziendali sono tutti specifici. «Meglio puntare su corsi, anche brevi, che oltre al controllo di gestione insegnino un po’ di finanza aziendale o il tema del rapporto banca/impresa» aggiunge il professionista. E i guadagni? «È ovvio che la parcella salga, a fronte del servizio in più e in proporzione al beneficio apportato al cliente» conclude Grosso del Cndcec. A regime, lo studio dovrebbe sviluppare un 10-20% di ricavi in più rispetto al semplice servizio di contabilità fiscale.

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