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Il progetto di fusione fra Deutsche Bank e Commerzbank ha suscitato critiche per il ruolo proattivo del governo tedesco, visto come aiuto di Stato improprio. Sono però molto più criticabili due altri aspetti della fusione: un approccio sbagliato alla soluzione della crisi delle due banche; e, di fatto, il de profundis per il progetto di unione bancaria.
Nel 2008, allo scoppiare della crisi, Deutsche Bank ricavava il proprio profitto in misura preponderante dal trading proprietario su titoli e derivati, operando con una leva elevata anche per qualunque fondo speculativo (attività totali pari a 50 volte il patrimonio). Oggi la leva si è ridotta a 22 volte (15 il dato medio di Intesa Sanpaolo e UniCredit), ma la struttura del bilancio è rimasta la stessa. A fronte di poco meno di 400 miliardi di prestiti ce ne sono oltre 600 di strumenti finanziari per il trading e derivati; di cui oltre 400 valutati in bilancio con modelli interni (Level 2 e 3) in quanto non esistono prezzi di mercato. Si tratta di posizioni con contropartita al passivo di strumenti analoghi.
Oltre al rischio di mercato, già dal fallimento del fondo Long term capital management nel 1998, si sa che i modelli interni non valutano correttamente il premio di liquidità qualora si debbano smobilitare consistenti posizioni di questa natura. Non sorprende pertanto che il mercato valuti appena 24 centesimi ogni euro di patrimonio che Deutsche Bank iscrive a bilancio. Per il regolatore, tuttavia, l’istituto di credito è ben capitalizzato con un coefficiente patrimoniale Core Tier 1 del 14%. Segno evidente della scarsa affidabilità del metodo degli attivi pesati per il rischio, utilizzato per determinare questo coefficiente.
Nel modello di business di Deutsche Bank gli utili dipendono dalla leva: avendo dovuto dimezzarla, è dal 2010 che la banca non è più in grado di remunerare adeguatamente il capitale; 1,9% il rendimento stimato per quest’anno. Pesa l’eredità di costi che oggi assorbono il 90% dei ricavi.
La strada del risanamento? Un drastico ridimensionamento con la cessione in blocchi dell’enorme portafoglio di trading; un taglio di costi altrettanto severo; la focalizzazione sullo sviluppo delle attività a basso rischio che richiedono poco capitale (servizi e prodotti finanziari, origination e strutturazione di crediti), e forte utilizzo di tecnologia. Invece Deutsche Bank vuole fondersi con un’altra banca in crisi, Commerzbank, che ha un modello di business da banca tradizionale, ma altrettanto deficitario. L’attuale Commerzbank nasce da un’altra fusione andata male: l’acquisto di Dresdner Bank nel 2008 per 10 miliardi, quando oggi le due fuse assieme ne valgono meno di 9. Da allora, Commerzbank non è mai stata profittevole (3,4% il rendimento sul capitale stimato anche per il 2019), gravata da costi insostenibili (80% dei ricavi).
Due banche in crisi strutturale, con due modelli di business differenti, avrebbero bisogno di due diversi approcci alla ristrutturazione. Una fusione non risolve niente, ma rischia di peggiorare la situazione di entrambe.
Il governo tedesco punta a creare il campione bancario nazionale che non ha. Che ci riesca o no, la fusione di fatto è il certificato di morte del progetto di un’unione bancaria nell’Eurozona. Un progetto che dovrebbe creare banche veramente paneuropee, capaci di raccogliere depositi in più Paesi dell’Eurozona, per darli a prestito indifferentemente a imprese e famiglie a prescindere dalla loro nazionalità, assoggettate alle stesse regole e a un unico regolatore, e con la mutualizzazione dell’assicurazione dei depositi e delle risorse necessarie per risoluzioni rapide ed efficaci delle crisi bancarie. I campioni nazionali sono la negazione di questo progetto.
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