Con l’inflazione per ora lo Stato ci guadagna
Fino quando il Tesoro emette nuovo debito a un costo inferiore, rispetto a quello medio delle emissioni che giungono via via a scadenza, il beneficio è tangibile
di Gianfranco Ursino
2' di lettura
Di fronte a un’inflazione che negli ultimi mesi ha raggiunto livelli record mai toccati negli ultimi decenni, in tutte le latitudini il carovita è diventato il nemico numero uno delle banche centrali che cercano di farla rientrare in primis a colpi di aumenti di tassi di interesse. In questo contesto, salgono i rendimenti dei titoli governativi di nuova emissione, con la conseguenza di veder crescere la spesa per interessi. Tutto questo, però, è vero se l’ondata inflazionistica dovesse protrarsi nel tempo.
Finora, almeno per lo Stato Italiano, l’inflazione ha offerto un aiuto alla riduzione del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo grazie alla maggiore crescita del Pil nominale, e continuerà a darlo fino a quando i tassi di interesse nominali, che determinano la crescita del debito, restano più bassi dell’inflazione. Una situazione che potrebbe durare ancora per diverso tempo, ma non all’infinito.
Un po’ d’inflazione, quindi, non fa male alla finanza pubblica. E fin quando lo Stato emette nuovo debito a un costo inferiore, rispetto a quello medio delle emissioni che giungono via via a scadenza, il beneficio è tangibile. Questo dipende anche dalle aspettative di inflazione che, se restano inferiori rispetto a quella attuale, portano i tassi di interesse reali a scendere.
A fine marzo scorso il debito pubblico italiano ammontava a 2,3 trilioni di euro. Uno stock con una duration media elevata di poco superiore a 7 anni, in gran parte (circa il 74%) costituito da BTp a tasso fisso, che limita e diluisce nel tempo l’impatto dei tassi in aumento sul debito pubblico.
Attualmente i titoli di Stato italiani in circolazione, nel loro complesso riconoscono in media un rendimento del 5,75 per cento, mentre i titoli di nuova emissione sono arrivati a riconoscere nell’ultima asta del 30 giugno scorso il 3,8% a 5 anni, il 4,35% a 10 anni fino ad arrivare al 5% a 30 anni. Tanto per rendere l’idea, tra i BTp che arriveranno a scadenza nei prossimi mesi, a novembre giunge al termine della sua trentennale durata un BTp (Isin IT0000366655) emesso nel 1993 che per tre decenni ha riconosciuto ai sottoscrittori cedole pari al 9 per cento. C’è ancora una significativa differenza. E un altro BTp (Isin IT0000366721) con cedola dell’8,5% scadrà nel successivo mese di dicembre. Da qui a fine anno giungeranno a scadenza titoli di Stato per un totale di 220 miliardi. E nel 2024 per altri 321 miliardi. Il rischio tassi di interesse è quindi ancora gestibile nel breve.
Finché il tasso medio riconosciuto dai titoli di Stato in circolazione è superiore a quello dei titoli di nuova emissione, l’inflazione erode la parte di debito pubblico che non è stata ancora rinnovata. Ma se le aspettative di inflazione continueranno a essere persistenti, si arriverà ad avere un’inversione degli effetti descritti, con tassi reali positivi e in aumento. A quel punto bisognerà iniziare a preoccuparsi.
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