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Conciliare visione e vendite: gli stilisti alle prese con il desiderio di una nuova autenticità

Tramontata l’era del racconto fine a se stesso e scomparsa la definizione dei codici, per i designer la sfida più urgente è conciliare immaginazione e indossabilità

di Angelo Flaccavento

4' di lettura

Raccontare o fare vestiti? Indulgere nella immaterialità dello storytelling o insistere sulla materialità del prodotto, che in fin dei conti è il veicolo ultimo di questa industria, anche se poi sono le fantasie a fluidificare i commerci? Il tema è centrale nella riflessione sulla moda contemporanea. Lo è in modo particolare nel segmento maschile: a dispetto del neo-conservatorismo che avanza con urgenze normative volte a cassare l’esuberanza, nell’ultimo decennio la decostruzione vestimentaria e iconografica delle certezze virili è stata importante ed evidente, e si è tradotta in un generale scombussolamento, in una perdita definitiva di certezze. L’equilibrio tra finzione e realtà, certo, è di là da venire, ma è proprio la tensione tra l’immaginato e il possibile a determinare progresso. Come che sia, l’epoca dello storytelling fine a se stesso, del puro spettacolo per poi mettere in negozio rassicuranti banalità, sembra volgere al termine: la narrazione, è chiaro ormai a tutti, anche ai clienti finali che si pensano pronti ad accettare ogni fandonia e invece no, deve essere consustanziale al design, altrimenti non vale.

Ne è un chiaro esempio Eli Russell Linnetz, creativo a tecnica mista con base a Venice Beach, piena periferia dell’impero fashion, mente e motore, dal 2018, di ERL, marchio proteiforme in veloce ascesa - ha già collaborato con Dior, senza snaturarsi - che questa stagione è ospite a Pitti Uomo 104. Per la prima volta il guest designer non sarà solo protagonista di un evento (in programma la sera del 15 giugno). Linnetz, infatti, ha anche realizzato l’installazione, fortemente scenica, che occupa il piazzale della Fortezza da Basso: la Statua della Libertà che affonda nel terreno, retta da una impalcatura, con figurine umane di contorno. È un rimando al classico sessantottino della fantascienza distopica, “Il pianeta delle scimmie”.

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Dice Linnetz, che al lavoro ha dato il titolo “Make Believe” (Finzione): «Ho frequentato una scuola di sceneggiatura ben prima di interessarmi alla moda. Provenendo da Los Angeles, cinema e finzione sono parte del mio orizzonte. L’installazione di Pitti provoca molte domande: gli omini costruiscono il set o lo smantellano? Siamo nel 1968 o nel presente? Guardiamo nel futuro o al passato? La narrazione per me è importante. Parto sempre da una storia, che immagino a 360 gradi, dalla musica agli ambienti. Gli abiti che disegno sono i costumi». Sono, quelle di ERL, creazioni fortemente tattili, imperfette, vissute: non acciaccate all’uso dei designer giapponesi, piuttosto rimasugli di un immaginifico family heritage cotto del sole e mangiato dalla salsedine. L’elemento artigianale è importante, e infatti spiega: «Chiunque può inventare abiti, ma è compito dell’artista portarli nel mondo reale ed è qui che entra in gioco il mestiere. Per me la moda è sempre stata qualcosa di naturale, un’estensione di ciò che sono. C’è una autenticità in quel che creo che spesso confonde e sfida il pubblico perché la visione generale è del tutto focalizzata sul commercio mentre l’isolamento a Venice Beach mi mantiene autentico».

Autenticità: è questo il punto nodale, la sola leva che trasforma il racconto in creazione, plasmando oggetti e prodotti, riscrivendone forma e, al meglio, funzione. In tal senso Rei Kawakubo di Comme des Garçons rimane titanica, un esempio per tutti. Continua a sperimentare, deformare; a esplorare il mostruoso e ridisegnare il corpo, di certo ripetendosi, ma sempre elettrizzando. La sua energia ruvida tracima, per pura affinità, sui nuovi ribelli, siano essi inclini ad un folk poetico e materico come Dilan Lurr, che da Namacheko propone l’idea del grunge medievale, cesellato come una miniatura ma sbrindellato come il flyer di un concerto underground, oppure sediziosi come Simone Botte e Filippo Biraghi, in arte Simon Cracker, il cui bricabrac upcycled è ruvido e sconclusionato quanto vitale, inesorabile nell’abbattere i confini tra vecchio e nuovo, maschile e femminile. La ribellione di Wales Bonner non ha toni punk, ma estenuati: un rifiuto decadente ed estetizzante del presente in nome di svolazzi aristocratici e delizie di alta pasticceria sartoriale.

È narrativo per davvero l’approccio di Louis Gabriel Nouchi: ogni collezione parte da un libro - questa stagione “American Psycho” di Bret Easton Ellis - ma si sviluppa intorno ai corpi, vari per forma ed età, espandendo i limiti di un codice, quello maschile, sovente angusto. Jonathan Anderson da Loewe dialoga con l’arte protorinascimentale e i suoi supporti - rame, velluto, pergamena - in uno scambio insieme ricco e sottile, che produce abiti di stagno ma anche incredibili cappotti di feltro modellati come cappelli. L’esplorazione della matericità è qui il racconto progressivo: una celebrazione del potere metamorfico della tecnica, specie se usata in modo non tradizionale.

Il racconto, poi, può essere efficace anche se minimo, delicato invece che deliberatamente sperimentale. La moltiplicazione della giacchetta antipioggia di K-Way è una trovata, certo, però piena di significato, come una azione di body sculpture. Al pari, una coperta amata da bambino dal direttore creativo Marco De Vincenzo scatena una favola di pattern e domesticità da Etro. La rimembranza infantile attiva lo storytelling per diventare fibra, con una leggerezza particolarmente efficace in questo periodo di messaggi inutilmente ululati. Quieto: un buon modo, forse il migliore, per unire il materiale e l’immateriale.

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