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«Don’t forget to achieve the fantastic». L’imperativo etico gli è stato dettato direttamente da Zaha Hadid. Marco Sammicheli, direttore del Museo del design italiano alla Triennale di Milano, nonché curatore dell’area design, moda e artigiano della stessa istituzione, ha usato la tensione verso l’irripetibile e lo straordinario come bussola di navigazione nel mondo della progettualità, vissuto e filtrato senza preconcetti. Dal sagrato di una chiesa a un frullatore, da un manifesto a una fotografia, dai processi industriali alla ricerca pura: la cultura materiale partecipa della qualità della vita degli esseri umani. Questa consapevolezza è il primo passo. E quando si aggiunge meraviglia alla conoscenza? Bingo. O almeno questa è l’intuizione che Sammicheli cerca di cristallizzare in parole mentre riflette sul suo ruolo oggi, toccandosi la camicia di Arthur Arbesser (un amico), lo sguardo oltre le statue della fontana dei Bagni misteriosi di Giorgio De Chirico, nel giardino del Palazzo dell’Arte di Milano che ospita la Triennale.
«Vorrei che il pubblico che visita il Museo del design uscisse non soltanto con lo stupore di un oggetto che desta meraviglia, ma capisse allo stesso tempo la complessità produttiva che lo ha generato. Per arrivare a una forma di educazione alla qualità, dei materiali, delle soluzioni, dell’ergonomia. Una consapevolezza che vorrei potesse poi avere un riflesso nelle scelte del pubblico, di consumo ma anche culturali», racconta il direttore.
Raggiungere il fantastico per scatenare la meraviglia. La lezione di Zaha è stata interiorizzata. Era il 2011 quando Sammicheli seguì nei suoi progetti in giro per il mondo l’architetta irachena naturalizzata inglese per un numero monografico di «Abitare»: Being Zaha Hadid, the teacher, the artist, the diva, che gli commissionò l’allora direttore della rivista Stefano Boeri, oggi presidente di Triennale. «Boeri aveva intuito che per raccontare il profilo di quelle che allora si cominciava a chiamare archistar occorreva fare un reportage aderente alla loro vita. Con la fotografa Giovanna Silva seguimmo la Hadid dappertutto: dall’inaugurazione del Maxxi a Roma all’Heydar Aliyev Centre a Baku, dai progetti in Scozia all’Aquatics Centre per le Olimpiadi di Londra, fino alla stazione marittima di Salerno. Zaha aveva con l’Italia un rapporto profondo che veniva da lontano, dalle vacanze a Roma fatte durante l’infanzia con suo padre, dalla scoperta di Lorenzo Bernini alla fascinazione per Pierluigi Nervi, il virtuoso del cemento armato».
Il filo biografico è evidente nelle ultime produzioni culturali della Triennale: Enzo Mari, Angelo Mangiarotti, Ettore Sottsass, Vico Magistretti. «Non c’è un intento celebrativo, ma la volontà di aggiungere conoscenza e approfondimento antropologico a figure che sono d’ispirazione per il presente. Nei prossimi anni sarà la volta di Gae Aulenti, Alessandro Mendini, Elio Fiorucci», racconta Sammicheli. E a ottobre ci sarà la prima monografica dedicata ad Alberto Meda.
Per il presente invece, l’attenzione è rivolta a un traguardo miliare: Triennale compie 100 anni e in occasione del prossimo Salone del Mobile, il 15 aprile verrà inaugurato un nuovo allestimento del Museo del design che coprirà la scansione temporale dal 1923 al presente. «In questi anni abbiamo lavorato molto al potenziamento della collezione. Fino al 2020 il museo esponeva opere tra il 1946 e il 1981, ora andiamo oltre mettendo in campo pezzi importanti acquisiti, donati o frutto di importanti comodati con istituzioni pubbliche e collezionisti privati. Il nostro è un museo che esprime il valore della cultura materiale, la trasformazione dell’intuizione di un singolo attraverso il lavoro di una squadra per raggiungere una comunità. Designer, impresa, pubblico: sono sistemi di relazione che vanno oltre il binomio di forma e funzione, oltre a essere le conseguenze di una domanda e di un’offerta. Il design italiano ha facilitato la traduzione di nuovi comportamenti sociali. Perciò vanno raccontati anche gli ambiti dell’innovazione e della tecnologia, e i suoi filoni generativi, come quello della cultura d’interni».
Nel nuovo allestimento ci sarà un flusso di oggetti dagli anni 20 in poi, dove il protagonista è il prodotto, condiviso poi dal 1961 con il Salone del Mobile, che rimane depositario della parte commerciale. «Dentro il flusso di oggetti, documenti, fotografie ci saranno anche ambienti: tre interni, un bagno, un ufficio, un garage, uno studio. In modo che il pubblico possa capire la genesi di un progetto e la stratificazione del processo. Ci saranno gli interni di Casa Minerbi di Piero Bottoni, di Casa Manusardi di Luigi Figini e Gino Pollini, di Casa Albonico di Carlo Mollino. La stanza dell’Elea 9003 della Olivetti disegnato da Sottsass, un bagno di Antonia Campi con tutti i sanitari, un garage con una Vespa, una Lambretta e una 500, una porzione dello studio del grafico svizzero Walter Ballmer che disegnò il logo di Valentino: un omaggio alle comunità straniere che hanno abitato a Milano e nutrito l’immaginario italiano portando il proprio».
Da dicembre diventeranno accessibili, al piano terra nella nuova ala ristrutturata da Luca Cipelletti, gli archivi di Triennale: oggetti, opere d’arte, foto, disegni, documenti. «Dentro un palinsesto il visitatore esplorerà nuclei tematici. È una mia grande passione: una delle marce in più delle aziende del Made in Italy è aver fatto tesoro della storia. Dall’archivio di un gruppo alimentare al museo di un’azienda che fa minuterie metalliche: tutto aggiunge valore e crea per il progettista contemporaneo lo scalino della storia su cui costruire il presente», racconta il direttore del museo. La mostra che ha curato all’interno della XXIII Triennale, La tradizione del nuovo, ne è stata un esempio: «Con il beneficio della storia ho portato cinque generazioni di designer e imprenditori che avevano immaginato un mondo prima che esistesse attraverso gli oggetti. Anche quelli spesso dimenticati come porte, finestre, sanitari».
Un approccio ecumenico che in parte rispecchia il percorso di Marco Sammicheli. Studi in comunicazione, un dottorato al Politecnico di Milano sul design del sacro, esperienze nell’editoria, con collaborazioni per «Zero», «Vogue», «Abitare», questo stesso giornale, e la corrispondenza dall’Italia per «Wallpaper». Il racconto come strumento di indagine. E poi i luoghi dove la curiosità e la vita lo hanno portato, dalla natìa Fano, passando per l’università a Siena, le frequentazioni con Copenhagen, familiari e non (nel suo Danish Diaries per Humboldt Books confessa tutto), le tappe a Weimar, dove tocca con mano il Bauhaus, e all’università Cattolica di Santiago del Cile ai tempi in cui stava maturando una nuova scuola di architettura e dove andava alle lezioni di Alejandro Aravena, Smiljan Radic, Fernando Perez. Fino alla chiamata di Paola Antonelli per lavorare alla XXII Triennale del 2019: Broken Nature.
Per il futuro, traccia qualche linea: «Vorrei fare una grande monografica su James Irvine, perché dopo Vico Magistretti è stato il grande ponte tra la cultura del design inglese e quella italiana. E poi vorrei soffermarmi su cinque designer che per me sono i moschettieri del design contemporaneo: Odo Fioravanti, Hugo Passos, Keiji Takeuchi, Michel Charlot, Julien Renault: interpretano al meglio la tradizione europea del forniture design con grande attenzione a materiali, processi industriali e qualità delle forme».
La sua esplorazione certo non si fermerà qui. L’orizzonte della cultural diplomacy è uno sbocco interessante, che conosce bene e ha in parte già praticato: «Per costruire occasioni di dialogo attraverso la cultura, un territorio di condivisione in cui possono esistere più codici contemporaneamente». Come ha imparato ai tempi in cui indagava i rapporti tra mondo del design e la committenza religiosa (Disegnare il sacro per Rubbettino è la sua tesi di dottorato), i cataloghi di possibilità su cui ragionare sono vasti. Tanto quanto l’essere umano che li crea. E si trovano dappertutto, cercando, senza pregiudizi di sorta. «C’è un luogo che l’architettura sacra si è inventata: è il sagrato. Quello spazio pubblico fuori dalla chiesa dove la comunità si incontra. Dove si gioca a pallone. Ci si concentra prima di entrare in chiesa. Si aspetta la sposa. Si fa festa. Si piange. È una soglia dove succede la vita». Il design, per Marco Sammicheli, è questo.
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