Conoscete i «non-promotable tasks»? Ecco perché dobbiamo occuparcene
Gli esperimenti di Vesterlund, Babcock, Peyser e Weingart fanno luce sui compiti privi di visibilità e spesso svolti in azienda da donne
di Eva Campi *
5' di lettura
Lise Vesterlund, professoressa di economia all’Università di Pittsburgh, insieme alle colleghe Linda Babcock, Brenda Peyser e Laurie Weingart, ha coniato il neologismo “non-promotable task” per definire quel tipo di attività che “pur essendo importanti per la tua organizzazione, non ti aiuteranno ad avanzare nella tua carriera”. Più di un decennio fa, le quattro accademiche hanno iniziato ad incontrarsi per condividere le loro storie di frustrazione ed esaurimento, formando un circolo di ascolto e supporto, “The No Club”.
Quest’anno questa esperienza è diventata un libro, “the No Club - Putting a Stop to Women's Dead-End Work”, un manifesto, una guida che ci invita a promuovere l’equità di genere sui posti di lavoro. Ma quali sono “i compiti privi di promuovibilità” riportati nel loro libro? Troviamo piccole ricorrenze di vita quotidiana in ufficio, come portare le brioches per i colleghi in occasione di una ricorrenza, preparare il caffè o pulire il disordine nella cucina condivisa; ma anche il tutoraggio di studenti laureati, fare consulenza in alcuni comitati e rivedere gli articoli da pubblicare sulle riviste accademiche. Tutto, rigorosamente a titolo gratuito.
Assolvere a questi compiti ha rappresentato un vantaggio per l’istituzione che impiegava Lise Vesterlund e colleghe, ma le ha allontanate dal loro lavoro principale di ricerca accademica. Per far fronte alle innumerevoli incombenze, la Vesterlund ci racconta che ha iniziato a lavorare la mattina molto presto e poi, anche, tardi la sera, dopo che i suoi figli erano andati a dormire. Citando testualmente la sua intervista alla CNBC: “il lavoro non-promotable richiedeva così tante ore da parte mia, che l’unico modo in cui potevo difendere il mio tempo di ricerca e di studio era di concludere la mia giornata lavorando fino a tardi”.
Nel libro, non solo viene raccontato il viaggio personale delle quattro donne nel rendersi conto di essere state gravate in modo sproporzionato da questi compiti, ma viene messo in evidenza anche quanto sia diffuso questo problema per moltissime donne che lavorano. La loro analisi in una rinomata società di consulenza ha rilevato che le donne trascorrevano in media circa 200 ore in più all’anno, rispetto agli uomini, in lavori non-promotable; l’equivalente di un mese di lavoro, senza riconoscimento alcuno.
Quali sono i motivi di questo fenomeno e come possiamo cambiare rotta? Per scoprire il perché le donne tendano ad essere gravate da più compiti “senza visibilità”, Vesterlund, Babcock, Peyser e Weingart hanno condotto degli esperimenti osservando come vengano prese le decisioni nei gruppi di lavoro. Nello specifico, sono stati esaminati molti scenari in cui per completare un compito sia richiesto un volontario/a. Le ricercatrici hanno scoperto che in un gruppo di genere misto, le donne si propongono come volontarie il 50% in più rispetto agli uomini.
“Ciò che questa ricerca indica è che la ragione o una delle ragioni principali di queste “attività di volontariato” senza visibilità è che tutti ci aspettiamo che siano le donne a svolgere questo lavoro”, ha spiegato Lise Vesterlund. Il primo passo per aiutare ad alleviare questo onere è aumentare la consapevolezza del problema e smascherare la pressione psicologica che, spesso in modo inconsapevole, grava soprattutto sulle donne nei contesti organizzativi.
Fino a quando un problema o una realtà non ha un nome, non esiste. Ecco perché, far conoscere questa terminologia, è il primo passo per definire un problema che sta effettivamente facendo allontanare nel tempo il “purpose” di molte lavoratrici. Occorre riconoscere che non tutti i compiti assegnati sono uguali, che c’è del lavoro che è meno visibile e apprezzato (aggiungerei misurabile) e che quel lavoro tende ad essere assegnato alle donne, e questo impedisce loro di avere successo e progredire nella carriera.
Le piccole soluzioni messe in evidenza dal testo sembrano banali; ad esempio, assegnare a turno questi compiti in modo ciclico e incoraggiare le organizzazioni a documentare la distribuzione dei task non-promotable. Dall’altro lato, la Vesterlund afferma che è anche cruciale per le donne rendersi conto della cosiddetta “interiorizzazione dell’aspettativa” dei compiti senza visibilità. In poche parole, se credo che gli altri si aspettino che sia io a fare una cosa perché di solito me ne occupo (ma non c’è scritto da nessuna parte che sia un mio dovere) risulta veramente difficile interrompere la continuazione di questo comportamento che assume i caratteri della desiderabilità sociale.
Le osservazioni del gruppo di ricerca hanno messo in luce dei comportamenti apparentemente insignificanti, ma assolutamente dirimenti per identificare e cambiare prospettiva. Ad esempio, studiando il linguaggio del corpo durante le riunioni, ci si è accorti che, soprattutto i colleghi maschi, sembravano impegnati in qualcosa d’altro oppure stavano controllando i loro telefoni quando emergeva il bisogno di volontari. In quel momento, il clichè che si ripeteva nella maggior parte delle volte, era l’alzarsi delle mani (reali o virtuali) di donne che si “immolavano” per soddisfare la richiesta.
Le quattro accademiche hanno istruito le donne a fare come i colleghi maschi, invece che interiorizzare le aspettative. Il risultato è stato sorprendente e ve lo lascio immaginare. L’impatto che questi studi possono avere per la riprogettazione delle dinamiche organizzative è enorme tenendo conto del disequilibrio ulteriore che la pandemia e la post-pandemia ha generato nel work-life balance delle persone, soprattutto delle donne.
Dalla mia esperienza più che ventennale, posso affermare che in molte situazioni le donne si sentono come se potessero subire un contraccolpo se non svolgono un determinato compito non-promotable e questo genera un forte condizionamento verso la realizzazione di sé. Invece, dovremmo tenere a mente che ogni volta che diciamo di sì a qualcosa, stiamo implicitamente dicendo di no a qualcos’altro. Vesterlund suggerisce che lo sviluppo delle capacità negoziali femminili è determinante per uscire da questo vincolo implicito. Il cosiddetto “sì condizionale” è la pratica che le ricercatrici invitano le donne a sperimentare.
Qualche esempio: l’accettare di svolgere una attività a condizione che un’altra/o collega possa occuparsi di un altro compito al di fuori delle attività di competenza stretta; oppure accettare di svolgere quel compito solo una volta e dichiararlo con assertività, e, ancora, aspettare 24 ore prima di dire sì, per lasciare il tempo a sé stesse di considerare, con attenzione, i pro e i contro dell’assumersi un compito non-promotable. Le dinamiche descritte nel testo sono illuminanti ed estremamente pret-a-portè!
Vi faccio un esempio dalla mia pratica quotidiana. Durante le attività formative capita spesso di dover suddividere un gruppo in alcuni sottogruppi. Soprattutto in determinati settori economici, possiamo trovare platee in cui il 75% dei partecipanti sono uomini e il rimanente 25% è composto da donne. Tendenzialmente saremmo portati, per avvalorare il contributo della diversità, a formare i gruppi distribuendo le donne equamente. Questa scelta però comporta il fatto che in qualche gruppo ci sia solo una donna. Che cosa succede di solito? Sono certa che se ci pensate, sapete già la risposta.
Al ritorno in plenaria, nel 90% dei casi, è quella donna ad avere scritto gli appunti e farsi portavoce del gruppo. Provate invece a formare i gruppi in modo diverso, mettendone ad esempio, almeno 3 in un gruppo da 6 o 7 persone. Vedrete che la dinamica “vai tu che sei brava a fare queste cose” tenderà a sparire. Provare per credere!
* Partner di Newton SpA
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