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Conquistare nuovi mercati con il driver dell'innovazione

Meccanica, macchine utensili, sensoristica, medicale e farmaceutica sono tra i settori più vocati a mettere in pratica la ricerca

di Carlo Andrea Finotto

(Adobe Stock)

3' di lettura

Piccole e medie imprese fa rima con innovazione. Anche se, in realtà, si potrebbe pensare il contrario visto che, di solito, l’equazione è: grandi investimenti in ricerca e sviluppo uguale elevata capacità di innovare. Ma per fare grandi investimenti servono (abitualmente) grandi dimensioni. Caratteristiche che non sono così diffuse nel sistema produttivo italiano.

La classifica dei Campioni dell’export 2023, realizzata dal Sole 24 Ore insieme a Statista, dice che «l’86% dei Campioni dell’export è formato da piccole e medie imprese» conferma Lisa Dei di Statista. Per giunta, «questo dato è due punti percentuali più elevato rispetto a quanto rilevato dalla graduatoria nel 2022».

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Da un lato, è vero che «per investire molto in ricerca e sviluppo e innovare occorre fare massa critica e avere dimensioni adeguate», sottolinea Lucia Tajoli, docente di Politica economica alla School of Management del Politecnico di Milano e responsabile scientifico dell’Osservatorio Export Digitale. Tra le criticità con cui deve fare i conti il sistema produttivo italiano c’è il fatto che «la ricerca e sviluppo in Italia è su livelli più bassi rispetto ad altri Paesi europei. E anche sul numero di personale laureato in azienda scontiamo un certo gap». Secondo Lucia Tajoli «la capacità innovativa non manca, ma in generale si tratta di casi di punta, di nicchie di eccellenza». Dall’altro lato – sottolinea la docente del Politecnico di Milano – «al di là dell’innovazione pura o di frontiera abbiamo settori forti e competitivi, come può essere ad esempio la meccanica, ma non solo».

Dalla classifica di Statista, infatti, emerge che «il 30% dei Campioni dell’export 2023 opera nel settore metalmeccanico» ricorda Lisa Dei. Inoltre, «sempre il comparto metalmeccanico e quello dei prodotti industriali sono anche i due ambiti nei quali le aziende della classifica realizzano i valori più importanti di fatturato grazie all’export: circa 3 miliardi aggregati, pari a oltre il 50% del totale delle 250 realtà esaminate» spiega Dei.

Insomma, moltissime Pmi italiane sono in grado di innovare pur scontando dimensioni e risorse ridotte rispetto alla concorrenza estera, e soprattutto, sono capaci di fare dell’internazionalizzazione uno dei loro punti di forza.

Raffaella Manzini, direttore dell’Osservatorio IP Cube della Liuc Business School di Castellanza si dice «convinta che l’innovazione sia un driver fondamentale della crescita e dell’export. Del resto l’Italia è un paese che non può far leva sui costi contenuti per essere competitivo, quindi la strada non può che essere quella di innovare».

Un elemento concreto per misurare la capacità di innovazione delle imprese è rappresentato dai brevetti. Raffaella Manzini è tra i docenti della Liuc che analizzano questi dati attraverso un osservatorio di performance innovativa basato su una serie di indicatori: «I brevetti non sono solo uno strumento di difesa contro imitazioni e falsificazioni, ma anche un fortissimo fattore di immagine e di marketing: ti danno una sorta di “patente di innovatore”, aumentano la capacità di negoziazione, sono una specie di packaging per far viaggiare l’innovazione in maniera più efficiente».

In Italia, gli ambiti in cui si brevetta di più sono quello medicale, il farmaceutico, la meccanica, il packaging, le macchine utensili, la sensoristica. «Sono settori che ci distinguono rispetto ad altri contesti» dice Manzini.

Se è verissimo, come spiega Lucia Tajoli, che «c’è un problema di dimensioni delle imprese, che, in generale, servono grandi investimenti per fare innovazione, che per le piccole realtà la strada è in salita e più difficile e che – infine – servirebbe un contesto che favorisca le aggregazioni e la crescita, magari anche con un appoggio maggiore da parte del sistema finanziario e del credito», è altrettanto vero che «non tutta l’innovazione emerge attraverso i dati della brevettazione – spiega Raffaella Manzini – e non è detto neppure che l’innovazione arrivi sempre e soltanto grazie a grandi investimenti in ricerca e sviluppo».

Intendiamoci, dice la docente della Liuc, «il confronto internazionale su determinati parametri ci penalizza e la capacità di puntare risorse sulla R&S è molto importante e premia i grandi gruppi. Tuttavia, le piccole e medie imprese possono trarre beneficio da centri di ricerca e università, possono anche acquistare innovazione da altre aziende più strutturate, o svilupparla sulla base dell’esperienza diretta sul campo. Inoltre, la situazione può cambiare molto a seconda dei settori produttivi». In pratica, guardare solo la quota media di investimenti in R&S sul fatturato può essere fuorviante, come il pollo di Trilussa: «Ci sono aziende anche medio-piccole dei comparti medicale o sensoristica che investono anche il 15-20% del fatturato in ricerca».

E poi le Pmi italiane hanno un vantaggio competitivo innegabile: «Nel mondo crescono progressivamente le classi medie affamate di made in Italy. Quindi, se già abbiamo molti campioni nel nostro sistema produttivo, potremmo averne di più: bisognerebbe fare uno sforzo per una maggiore penetrazione sui mercati emergenti, più difficili e meno conosciuti» afferma Lucia Tajoli.

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