La volata per lo scudetto

Conte, l’Inter e i segreti di un (quasi) miracolo

La squadra nerazzurra è diventata marmorea, senza peraltro mai divenire né bella né travolgente. Eppure vince, anche e soprattutto dove gli altri perdono: nella concezione del gruppo e di chi lo compone

di Giulio Peroni

(AP)

4' di lettura

L'Inter non è solo Antonio Conte, la coppia Lautaro-Lukaku, lo sviluppo di un gioco e di un successo. Il (quasi) scudetto nerazzurro, in arrivo già nel weekend con l'eventuale vittoria a Crotone e il non bottino pieno dell'Atalanta con il Sassuolo, è una situazione complessiva. Una somma di elementi che oggi nessun altro club presenta o è in grado di assemblare. Una piattaforma ideale da cui sono nate leve importanti, spirito comune, unità di intenti. E mutismo (non solo tattico) dei personalismi.

Squadra non bella ma sempre vincente

I trionfi hanno prima un'anima, poi una proiezione. La squadra nerazzurra è diventata marmorea, senza peraltro mai divenire né bella né travolgente. Per gli oltranzisti dell'estetica la sintesi perfetta del giusto che non convince. Ma è solo il pensiero marchiano di chi alla verticalità preferisce le ragioni della superficie. L'Inter vince, e vince facile. Anche e soprattutto dove gli altri perdono. Nella concezione del gruppo e di chi lo compone.

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Vince nella dimensione della resilienza, nella filosofia dell'uno-per-tutti e non del tutti-per-uno, che nel calcio dello star system non è atto dovuto, facilmente praticabile. La Juve dei 9 scudetti di fila ha cominciato a sconfessare sé stessa (e gradualmente a perdere) quando si è sconsacrata la meccanica d'insieme. Ronaldo non più pregiato solista, ma deus ex machina di una orchestra avviluppata in un spartito non più basico, dunque sofferente. Uno status azzardato, forse obbligato, che ha prodotto l'innalzamento dei cattivi umori, delle gelosie. In un ambiente con gerarchie istituzionalizzate, imposte dall'alto, non più necessariamente costruite sul lavoro e sul merito.

I tormenti delle rivali

Dybala soffre il portoghese, al Milan non possono fare a meno di Ibrahimovic super pagato e quarantenne. All'Inter invece il mood è differente. Nessuno soffre nessuno. In un ambiente sereno, dal profilo basso. Dove tutti, staff tecnico, ufficio comunicazione e giocatori, hanno smesso la divisa dell'ansia. Che ricorre a principi di grandezza attraverso leggi di immediatezza e di mero tornaconto. Sul (difficile) traguardo della semplicità, l'Inter ha invece fondato basi di consapevolezza, di entusiasmo: sempre e solo condiviso.

La società di oggi assomiglia non poco, almeno nelle linee guida, al primo Milan di Berlusconi. Quello delle coppe e degli scudetti a valanga. Dove tutti erano un tassello di un mosaico energizzante, collettivo. A partire dal custode di Milanello. Nel club di Suning e con Antonio Conte nelle vesti di padre putativo dei suoi ragazzi, ognuno nel club ha fatto in modo che contassero prima le persone, poi i ruoli. E questo vale per tutti, anche per i campioni più blasonati. Come Lukaku, Eriksen e Lautaro. Quelli che fanno la differenza. Che senza gli altri - concetto-base contiano - sarebbero un vezzo fine a se stesso. Un valore aggiunto, non una funzione.

La forza dello spogliatoio

Non è un caso che il leader naturale di questa squadra “democratica” sia Andrea Ranocchia. Una riserva. Ma solo sulla carta. Un giocatore che il tecnico ha voluto trattenere con ogni mezzo, riconoscendone le sue doti di aggregatore, di incredibile uomo spogliatoio. Segue a ruota il giovane Nicolò Barella, appena 24enne. Roccioso, generoso. Sul prato e, a quanto sembra, anche nella tessitura umana del gruppo. Il club ha virato verso una idea di insieme, che parli al plurale.

Una cittadella del benessere anche interiore. Attenta alla crescita delle personalità, al loro sviluppo. Perché - come diceva Giacinto Facchetti - finita la carriera per un calciatore comincia la vera vita da uomini.

Nell'epoca dei social e delle facce da selfie, all'Inter hanno bandito i malumori, gli individualismi. E mentre da altre parti (vedi Juve con Dybala e Ronaldo, Milan con Donnarumma, Napoli con Hysaj) il tema dei rinnovi e degli ingaggi è una pozza di sabbie mobili di pubblica conoscenza, all'Inter, tra i top in scadenza nel 2022 solo Perisic, Brozovic ed Handanovich, le finestre dei vecchi spifferi sono state sigillate. Le problematiche ora restano sottotraccia.

Uno scudetto che manca da 11 anni

La capolista, che il campionato non lo vince da 11 anni, 24 vittorie e solo 2 sconfitte in 33 gare questa stagione, salvo contro le dirette rivali (Milan e Juve, sarà un caso?) non ha mai brillato per le sue geometrie. Spesso praticando un calcio di attesa: palla lunga, verticale e veloce solo sotto spinta, un football reazionario agli eventi. Ma pur senza spesso dominare l'avversario, l'ensemble nerazzurro è riuscito a domarlo con i propri autorevoli contenuti.

Un vortice di potenza e compattezza nel quale sono riusciti ad affogare, con inevitabilità, tutti i contendenti. Anche quelli più bravi, più belli. Vinse così un Mondiale l'Italia ’82 di Enzo Bearzot, salì sul podio in tre competizioni la stessa Inter di Mourinho nel 2010. Quest'ultima così prodiga di valore extra calcistico, da proporre Samuel Eto'o terzino sinistro a tutta fascia, come oggi fa l'ex indolente Ivan Perisic nella squadra di Conte. Trasformato ora in giocatore volitivo e duttile.

Il tecnico ha contribuito alla costruzione di questo scudetto, che non è solo una idea partita da lontano, ma anche un inizio. Per questo vorrebbe restare a Milano, proseguire un progetto non solo sportivo. E sapere se anche in Cina quest'Inter-style terribilmente umana, è davvero ciò che vogliono.

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