Contro la retorica meritocratica spazio al mutuo riconoscimento
Il diritto è ciò che ci ha portato fuori dallo stato di natura, ma il diritto senza il mutuo riconoscimento è come uno scheletro senza il resto dell'organismo; fa addirittura paura
di Vittorio Pelligra
4' di lettura
Il passaggio dall'”individuo” alla “persona” implica la considerazione della natura relazionale di quest'ultima come sua realtà fondante. La relazione è per la persona una realtà ontologica, sosteneva Luigi Pareyson: “L'uomo è una relazione, non nel senso che egli è in relazione con, oppure, intrattiene relazioni con: l'uomo è una relazione, più specificamente una relazione con l'essere (ontologico), con l'altro”.
Un pensiero sviluppato e arricchito anche dalla riflessione del filosofo siciliano Giuseppe Maria Zanghì, che vede nella persona la “maturità dell'individuo”. Perché - sostiene - “L'individuo è sé in sé stesso, la persona è sé nell'altro. (...) L'individuo da sé non può farsi persona”. Ma se la persona è sé nell'altro, l'altro diventa elemento costitutivo della nostra stessa soggettività; l'altro ci dice chi siamo e diventiamo chi saremo nella relazione di rispecchiamento e di confronto aperto con l'altro. Questa ricchezza intersoggettiva si nutre di una pratica tanto essenziale quanto insicura: la pratica del “riconoscimento”.
Sguardo che costituisce
Per fiorire come persona abbiamo necessità del mutuo riconoscimento, di rapporti nei quali la nostra autoriflessione venga nutrita di stima, amicizia, valore, dignità da parte di altri. Ma questa forma di riconoscimento appare tanto essenziale quanto insicura perché non può essere data per scontata, non può essere ottenuta forzosamente o avremmo a che fare con qualcos'altro, con una finzione insincera e inefficace. Al fondo della nostra natura sociale scopriamo, dunque, un paradosso: abbiamo bisogno dello sguardo benevolo dell'altro; uno sguardo che ci è necessario e che liberamente ci costituisce, ma è anche questo uno sguardo che, proprio in virtù della libertà che lo alimenta, può non arrivare o, perfino essere malevolo, carico, magari, di disprezzo e fonte di umiliazione.
Questo tema che sembra così intimamente personale assume, in realtà, una fortissima valenza collettiva e sociale e non solo perché alla base vi sono le nostre reti di relazioni, la trama stessa della società, ma perché esso si trova a fondamento del nostro vivere civile. È Ernst Bloch a ricordarci che “le utopie sociali mirano soprattutto alla felicità o almeno alla soppressione del bisogno […] le teorie giusnaturalistiche mirano principalmente alla dignità, ai diritti dell'uomo, alle garanzie giuridiche della sicurezza o libertà, come categorie dell'orgoglio. Perciò l'utopia sociale si orienta soprattutto all'eliminazione della miseria, e il diritto naturale soprattutto all'eliminazione dell'umiliazione”.
Lavoro significativo e retorica del merito
Il diritto naturale e le sue derivazioni contrattualistiche che la nostra tradizione occidentale pone alla base della convivenza civile devono mirare prima di tutto alla tutela della dignità e all'eliminazione dell'umiliazione. È lecito e necessario, allora, chiedersi quanto il patto sociale che regge la nostra convivenza sia stato realmente capace di promuovere la dignità di ogni suo membro, di eliminare il rischio dell'umiliazione sistematica e di proteggere da una versione istituzionalizzata di quella particolare “mutilazione dell'essere umano che viene indicata con il concetto di spregio” (Axel Honneth). Questa domanda è la stessa che ritroviamo al fondo di due questioni che abbiamo incontrato varie volte su Mind the Economy, negli ultimi mesi: quella del “lavoro significativo” e quella della “retorica del merito”. Sono convinto che provare a leggere questi due temi dalla prospettiva del “riconoscimento”, dell'eliminazione dell'umiliazione e del disprezzo, possa gettare una luce originale ed illuminare piste di indagine interessanti e proficue.
Leggendo i dati che emergono da molte analisi filosofiche, sociali ed economiche, le nostre società avanzate non stanno ottenendo risultati esaltanti da questo punto di vista. Sempre più lavoratori sono convinti che la loro attività sia priva di senso, inutile se non, addirittura, dannosa per la società nel suo complesso; centinaia di migliaia di “morti per disperazione” trovano spiegazione nella radicale perdita di senso e di finalità sperimentata da intere classi sociali proprio in quei paesi che meglio avrebbero potuto soddisfare le promesse di benessere materiale e significato esistenziale.
Al contempo osserviamo moltitudini intrappolate in lavori che rappresentano vere e proprie “ferite psichiche” (David Graeber) e che rappresentano un enorme problema sociale di cui ancora troppo poco si parla e si discute. D'altra parte, invece, si è molto disposti a parlare di merito, qualunque cosa questa parola voglia effettivamente significare. Talento più impegno fanno la differenza, ci si dice, e quindi devono essere premiati. Senza pensare veramente a fondo da dove arrivino sia il talento che la capacità di impegnarsi.
Solo da qualche tempo e ancora molto timidamente, la retorica della meritocrazia ha iniziato ad essere analizzata criticamente e decostruita. E allora abbiamo scoperto che ciò che oggi molti vedono come una felice utopia veniva, originariamente, pensata come una terribile distopia: la legittimazione morale e istituzionale delle disuguaglianze. Una giustificazione dell'ereditarietà dei privilegi, una aristocrazia camuffata, ma non per questo meno ingiusta e destabilizzante. Un pensiero che, se da una parte premia il merito, dall'altra punisce il demerito, senza comprendere che sia l'uno che l'altro, sono artifici retorici e hanno un più che flebile fondamento nella responsabilità individuale.
Scheletro che fa paura
Ecco, se provassimo a guardare al mondo del lavoro e alla retorica meritocratica che spesso lo governa attraverso le lenti del riconoscimento, ne emergerebbe un quadro piuttosto desolante. Ancor più per la quasi totale assenza di consapevolezza del problema e l'irrilevanza nel dibattito pubblico. Chi ne parla? Chi solleva il tema di un'organizzazione della vita lavorativa che umilia i suoi partecipanti che li disprezza e li “mutila”, che gli dà poco e certamente non il riconoscimento che meriterebbero in quanto portatori di diritti e, ancor prima, in quanto persone. E se questi termini appaiono troppo radicali, è Axel Honneth a ricordarci che “tutto ciò che nella lingua parlata viene designato come ‘spregio' o ‘offesa' comprende differenti gradi di violenza; tra la palpabile umiliazione legata al rifiuto dei diritti fondamentali elementari e la raffinata umiliazione che consiste nell'allusione pubblica all'insuccesso di una persona” la differenza è di grado e non di sostanza.
Il diritto è ciò che ci ha portato fuori dallo stato di natura, ma il diritto senza il mutuo riconoscimento è come uno scheletro senza il resto dell'organismo; fa addirittura paura. Siamo tutti chiamati a rivendicare e, al contempo, ad incarnare una cultura della reciproca legittimazione, politica, economica, sociale e civile. Si tratterebbe di una inversione di tendenza radicale anche rispetto a ciò che il nostro paese ha sperimentato nel passato recente. Un augurio ed un auspicio per il Natale di un anno piuttosto speciale.
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