Controlli fiscali, rischio Cassazione sul termine dei cinque anni
La Corte ha rimesso alle Sezioni Unite la delicata questione sulla decadenza del potere di accertamento in riferimento agli oneri pluriennali.
di Carmine Elio Ascione
4' di lettura
Potrebbe non essere più una certezza il termine di cinque anni oltre i quali il fisco non può attivare i propri controlli. La Corte di cassazione, infatti, con l'ordinanza interlocutoria n.10701 depositata il 5 giugno 2020 ha rimesso alle Sezioni Unite la delicata questione sulla decadenza del potere di accertamento in riferimento agli oneri pluriennali.
La vicenda
Alla stabile organizzazione italiana di una banca con sede ad Amsterdam veniva notificato un avviso di accertamento con il quale gli si contestava la deduzione della quota di un nono di una svalutazione maturata e iscritta in bilancio anni prima (dell'articolo 106, comma 3 del Tuir vigente ai tempi della vicenda).
Infatti, secondo la tesi dell'Ufficio, essendo stati erogati crediti con risorse della casa madre, tenuto conto del principio di correlazione tra costi e ricavi, andava attribuita alla società olandese la parte di svalutazione corrispondente alla percentuale dei crediti erogati con risorse provenienti dalla stessa, negando, di conseguenza la deducibilità in capo alla branch.
La società eccepiva, tra i vari motivi, anche l'intervenuta decadenza del
potere di accertamento del fisco. I giudici milanesi decidevano a favore della stabile organizzazione italiana, ritenendo che il componente negativo di reddito a efficacia pluriennale non potesse essere più contestato dall'amministrazione finanziaria per ragioni diverse dalla mera erronea determinazione della quota. In sostanza era divenuto definitivo in seguito al decorso del termine di decadenza per l'accertamento.
L'agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione per l'annullamento del provvedimento, sostenendo la possibilità di accertare a posteriori gli anni successivi disconoscendo nel merito i singoli ratei.
La normativa
Il termine di decadenza del potere di rettifica dell'amministrazione finanziaria ai fini delle imposte sui redditi è fissato al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (articolo 43 del Dpr 29 settembre 1973, n. 600). A partire dalle dichiarazioni relative al periodo di imposta 2016 gli uffici dispongono di un anno in più (31 dicembre del quinto anno successivo a quello di
presentazione) e di due anni in più in caso di omessa presentazione (31 dicembre del settimo anno successivo)
Tale termine costituisce una garanzia in favore del contribuente, il quale, altrimenti, sarebbe indefinitamente assoggettato all'azione accertativa del fisco.
Sul punto è intervenuta più volte la Corte costituzionale, la quale ha ribadito che l'interprete debba ricercare soltanto una ricostruzione del sistema che non lasci il contribuente esposto, senza limiti temporali, all'azione esecutiva del fisco, in quanto ciò non è consentito dall'articolo 24 della Costituzione (si vedano le decisioni della Consulta 107/2003, 352/2004, 247/2011).
La sentenza della Cassazione
La Corte di Cassazione nell'ordinanza interlocutoria ha innanzitutto richiamato i principi recentemente affermati dalle sentenze 9993/2018 e 2899/2019 della stessa Corte, che escludevano la possibilità per l'amministrazione finanziaria di recuperare a tassazione, una volta spirato il termine di cui all'articolo 43 del Dpr 29 settembre 1973, n. 600, i ratei relativi a componenti reddituali pluriennali, salvo il caso in cui la contestazione faccia riferimento solo ed esclusivamente alla mera erronea determinazione del rateo. Infatti, secondo le citate pronunce, la contestazione nel merito di detti oneri deve avvenire entro il termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo d'imposta in cui il componente è maturato, contabilizzato e iscritto per la prima volta in bilancio.
Ciò nonostante, con l'ordinanza in commento, gli ermellini hanno ritenuto una simile interpretazione opinabile e non del tutto convincente.
In particolare, la Corte rammenta che, il citato articolo 43, fissa il termine di decadenza del potere impositivo a decorrere dalla data di presentazione di ciascuna dichiarazione senza prevedere alcuna deroga per i componenti di reddito pluriennali, e pertanto, ne fa discendere la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di rettificare nel merito ciascun singolo rateo cui il componente reddituale è suddiviso.
Inoltre, rileva che i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza 280/2005, che ricalca quanto chiarito dalla giurisprudenza fin qui citata, non siano riferiti alla decadenza in genere ma solo alla notificazione delle cartelle di pagamento.
Infine, la Cassazione evidenzia che le norme civilistiche e tributarie impongono tempi di conservazione dei documenti molto lunghi e pertanto, in caso di “dilatazione” dei termini di decadenza non verrebbe comunque leso il diritto di difesa dei contribuenti. A tal proposito, aggiungono i giudici, sembra doversi ritenere che il concorso alla determinazione della base imponibile, anno dopo anno, dei componenti di reddito pluriennali comporti l'autonoma riaffermazione in ciascuna dichiarazione dei presupposti di fatto e di diritto per computare gli stessi componenti nella base imponibile di quel periodo, con la conseguenza che anche i termini per la conservazione della documentazione, relativa ai fatti costitutivi del componente di reddito, vadano a rinnovarsi di anno in anno.
Alcune considerazioni
Secondo la Suprema Corte, quindi, l'Amministrazione può ridiscutere nel merito e rivalutare nel quantum tutti gli oneri pluriennali, come ad esempio ammortamenti, spese di manutenzione eccedenti il 5 per cento del valore dei beni ammortizzabili o le detrazioni sulle ristrutturazioni e l'efficientamento energetico degli immobili.
Ciò vuol dire concretamente che, nel caso in cui le Sezioni Unite dovessero avallare tale tesi, potrebbe verificarsi che, l'Agenzia delle entrate contesti l'indeducibilità delle quote di ammortamento di un immobile o la mancata spettanza di una detrazione per interventi di ristrutturazione edilizia il trentottesimo o il quindicesimo anno successivo al fatto costitutivo, limitando notevolmente l'efficacia della garanzia costituzionale dettata dall'articolo 24 della Costituzione, e per sua emanazione, dall'articolo 43 del Dpr 600/1973. Il che obiettivamente appare esagerato.
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