Cop 26, a Glasgow si negozia a oltranza per un accordo sul climate change
Il nodo degli aiuti ai Paesi a basso reddito. Ipcc: fino a 1.000 miliardi $ l’anno il costo per l’adattamento al clima
dal nostro inviato Gianluca Di Donfrancesco
4' di lettura
Le lancette corrono e i tempi regolamentari sono scaduti. La Cop26 di Glasgow doveva chiudere i battenti alle 18 di venerdì 12 novembre, ma ormai sono necessari i supplementari per convincere i circa 200 Stati coinvolti ad arrivare a intese all’altezza della sfida posta dal climate change. La pressione è altissima, frutto dell’accentuata sensibilità sul tema e della mobilitazione di milioni di giovani di tutto il mondo, ispirati da Greta Thunberg. Si sono fatti sentire anche in Scozia.
Una nuova bozza di documento finale, cappello del pacchetto complessivo in discussione al vertice, è attesa per il mattino del 13 novembre. Si punta a chiudere in giornata.
Il nodo degli aiuti
Venerdì o sabato, il risultato della Cop26 «è solo un inizio» per il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans. Il responsabile dell’Unione per le politiche sul clima ha sottolineato che occorre «creare fiducia, poiché non abbiamo ancora dato gli aiuti promessi» ai Paesi in via di sviluppo. Anche in prospettiva, quello economico resta uno degli ostacoli più ardui da superare. In altre parole: chi paga per la transizione energetica? Il dossier è stato al centro dei lavori di tutto il vertice, a cominciare dalle due giornate di interventi dei capi di Stato e di Governo, il 1° e il 2 novembre.
Nel 2009 i Paesi avanzati si erano impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno a favore di quelli a basso reddito. Ci si doveva arrivare nel 2020, ma ci si è fermati sotto i 90 (83-88 secondo l’Ocse). Alla vigilia del vertice mancava una manciata di miliardi, che scavano un solco profondo. La somma potrebbe essere raggiunta entro il 2023. Timmermans, ha definito «deludente» il comportamento dei Paesi avanzati. «L’Unione Europea dà già ora 27 miliardi di dollari - ha detto - ed è pronta a esplorare la possibilità di sforzi ulteriori».
Sarà comunque solo un inizio: ne serviranno molti di più per aiutare i Paesi in via di sviluppo a trasformare i propri sistemi economici e per compensarli dei danni causati dal climate change, che ha già effetti drammatici soprattutto nelle nazioni a basso reddito e insulari (superando le resistenze Usa a disposizioni vincolanti).
Gli emergenti sottolineano che storicamente sono le economie avanzate ad avere le responsabilità maggiori per l’inquinamento del pianeta. L’India ha chiesto mille miliardi di dollari solo per il proprio passaggio alle fonti verdi. È un passaggio determinante, perché i piani climatici finora sottoscritti non bastano.
I piani climatici nazionali
Allo stato delle cose, i gas serra aumenterebbero di quasi il 14% nel 2030, rispetto al 2010. Si vorrebbe invece tagliare le emissioni di CO2 del 45% e arrivare allo “zero netto” attorno a metà secolo. Un compromesso per chi punta al 2060 (come Cina, Russia e Arabia Saudita) o al 2070 (India). Si spinge pertanto ai Paesi di aggiornare i target nel 2022 (superando le obiezioni di Riad e Pechino). È questo un punto chiave soprattutto per gli Stati insulari, quelli sulla linea del fronte del climate change.
Altre questioni spinose, al di là dei risultati del vertice: carbone e sussidi ai combustibili fossili. Usa e Ue vogliono accelerare lo stop, soprattutto alle sovvenzioni. I Paesi più dipendenti (India, Cina, Russia, Australia) frenano. L’obiezione è anche di metodo: si entrerebbe qui nell’ambito delle scelte nazionali, mentre a rigore nel processo Cop si fissano gli obiettivi e si lascia ai Paesi il compito di centrarli, salvo poi misurare e verificare con meccanismi di monitoraggio e trasparenza, questi sì, il nucleo (incompleto) dell’accordo di Parigi.
Sul punto, a Glasgow un gruppo di Paesi ha sottoscritto il 4 novembre una dichiarazione che prevede lo stop entro la fine del 2022 a «nuovi sussidi pubblici al settore internazionale dell’energia da fonti fossili». Il commissario Ue per il Clima, Timmermans, ha comunque ribadito che l’impegno deve rimanere: «Rimuoverlo sarebbe un segnale estremamente cattivo».
Distanze da colmare restano anche sul carbone. Anche qui si fa notare che si tratta di scelte nazionali. La conferenza di Glasgow è comunque partita con l’ambizione di «consegnarlo alla storia», come dice il presidente della Conferenza, Alok Sharma.
Nella dichiarazione congiunta con gli Usa, la Cina si impegna a ridurne il consumo a partire dal 2026. Nel frattempo, la sua fame di energia la spinge a bruciarne di più. Anche la Russia frena sull’accelerazione dell’addio al carbone. «Le promesse suonano vane quando l’industria dei combustibili fossili riceve ancora migliaia di miliardi di dollari di sussidi, come stima l’Fmi, o quando ancora si costruiscono centrali a carbone», ha detto il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres.
Il disgelo Usa-Cina
La Cop 26 può contare all’attivo un raro momento di cooperazione tra Stati Uniti e Cina, le due superpotenze che alla vigilia del vertice erano (e in gran parte restano) in rotta di collisione su tutto. Mercoledì, il capo negoziatore cinese, Xie Zhenhua, e l’inviato Usa, John Kerry, hanno annunciato a Glasgow una dichiarazione congiunta contro il global warming. I contenuti possono sembrare relativamente incisivi, il segnale politico però è potente. Lo spiraglio aperto verso il disgelo è un successo per il vertice in Scozia. Al tempo stesso ha dato una spinta ai negoziati. La cooperazione tra Barack Obama e Xi Jinping nel 2014 fu determinante per l’accordo di Parigi del 2015.
Venerdì Kerry e il capo negoziatore cinese, Xie Zhenhua, si sono concessi una passeggiata tra i padiglioni delle delegazioni nazionali. Un messaggio, non solo per la Cop di Glasgow.
Mille miliardi
Fino a mille miliardi di dollari all’anno potrebbero essere necessari per coprire i costi del global warming nel mondo entro il 2050. Lo scrive l’Ipcc, il comitato scientifico sul clima dell’Onu, in una bozza del rapporto su effetti e risposte al cambiamento climatico, atteso per l’inizio del 2022, secondo quanto riporta France Press. «I costi di adattamento sono considerevolmente più elevati di quello che si stimava precedentemente», si legge in una nota sul rapporto di 4mila pagine. «Le disposizioni esistenti per finanziare l’adattamento sono inadeguate di fronte all’ampiezza anticipata degli impatti climatici».
Il rapporto Unep (il programma Onu per l’ambiente) sull’Adaptation Gap, pubblicato all’inizio di novembre, afferma che le esigenze di finanziamento si avvicineranno ai 300 miliardi di dollari all’anno nel 2030, raggiungendo i 500 miliardi di dollari entro il 2050.
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