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Corea-Giappone, guerra commerciale tra antichi rancori

di Stefano Carrer

Nuove nuove tensioni tra Giappone e Corea del Sud

4' di lettura

«State attenti se andate in Corea del Sud sotto Ferragosto!». È la raccomandazione che le autorità di Tokyo hanno dato ai cittadini giapponesi, rafforzando messaggi inviati già nelle scorse settimane. Oggi è festa grande a Seul e dintorni: si celebra la 74esima Giornata Nazionale della Liberazione. Fu il 15 agosto 1945 che l’imperatore Hirohito annunciò al suo popolo che si doveva «sopportare l’insopportabile e soffrire l’insoffribile», ossia arrendersi. Per i coreani, questo significò la fine del giogo coloniale iniziato 35 anni prima.

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Dalla mattina fino a una veglia serale a lume di candele, decine di migliaia di persone sfilano a Seul, convocate da oltre 700 organizzazioni della società civile e sindacati di lavoratori. Un anticipo su toni emotivi si è avuto ieri per l’International Memorial Day dedicato a una particolare categorie di vittime: le donne indotte alla prostituzione durante la guerra in favore dei militari giapponesi. Con grandi dimostrazioni davanti all’ambasciata giapponese e in un’altra zona della città, dove è stato inaugurato un nuovo monumento donato da coreani-americani.

Quest’anno le ricorrenze si colorano più del solito di sentimenti antinipponici, in quanto le relazioni bilaterali sono precipitate ai minimi a causa di un conflitto commerciale che sta già danneggiando entrambe le economie e rischia di provocare effetti negativi su scala globale e in particolare nelle supply-chain del settore tecnologico, aggravando una congiuntura mondiale già in deterioramento sulla scia del contenzioso tra Usa e Cina.

È sorto un movimento che promuove il boicottaggio di merci e servizi giapponesi, amplificato dai social media, appoggiato da molte autorità locali e cavalcato da alcuni politici che si spingono persino a invocare l’astensione dalle Olimpiadi di Tokyo. I più scalmanati arrivano a imbrattare di kimchi le Toyota di passaggio, mentre si registra un calo del 18% delle partenze di turisti verso il Giappone nella prima parte di agosto e arrivano segnali di diminuzione dell’afflusso di acquirenti nei negozi Uniqlo e di minori consumi di birre Asahi, Sapporo e Kirin.

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Tutta la faccenda ha radici nel peso della storia (risalente fino all’invasione giapponese a fine ’500) , ma ha cominciato a esplodere agli inizi di luglio per una iniziativa che i coreani - come espresso dallo stesso presidente Moon Jae-in - hanno interpretato come un tentativo di danneggiare la loro economia per umiliare la nazione. Di sicuro la sorpresa è stata grande nel mondo quando il governo giapponese, subito dopo il G-20 di Osaka, ha annunciato l’introduzione di restrizioni all’export verso la Corea del Sud di tre materiali (poliammide fluorurata, fotoresist e fluoruro di idrogeno) essenziali per l’industria dei semiconduttori e display, di cui i gruppi di Seul sono leader globali.

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Una mossa seguita dall’annuncio della cancellazione di Seul dalla «lista bianca» dei 27 Paesi che godono di trattamento commerciale preferenziale. Si è faticato a comprendere la svolta del premier Shinzo Abe, che negli ultimi anni si è proposto come il nuovo campione del libero scambio promuovendo la liberalizzazione commerciale con la Ue e salvando al Trans Pacific Partnership ripudiata dall’America di Trump.

Il varo di ostacoli burocratici all’export di prodotti di cui il Giappone detiene quote preponderanti del mercato mondiale richiama inevitabilmente analoghe pressioni esercitate tempo fa dalla Cina con il suo quasi-monopolio delle terre rare. Tokyo ha citato vagamente ragioni di sicurezza nazionale, in relazione a segnali di gestione inappropriata dei materiali in questione (che potrebbero finire in Paesi nemici, utilizzati a fini militari).

Ma la motivazione vera, evidenziata in un tweet dallo stesso ministro dell’economia Hiroshige Seko, sta nel venir meno di relazioni di fiducia tra le parti, per un “casus belli” che riguarda proprio il periodo bellico e coloniale: nell’autunno scorso la Corte suprema di Seul ha riconosciuto il diritto al risarcimento ad alcuni coreani che furono costretti a lavori forzati da imprese giapponesi. Nel mirino, i colossi Mitsubishi Heavy e Nippon Steel. Una dozzina di casi è ancora in via di definizione. Per Tokyo, la questione dei risarcimenti è stata risolta in via definitiva nel 1965 tramite l’accordo per la ripresa delle relazioni, in seguito al quale finanziò la rinascita dell’economia coreana. La parte giapponese è molto irritata anche per il fatto che l’amministrazione Moon abbia annullato una intesa del 2015 che, con la costituzione di un apposito fondo, chiudeva in via dichiarata definitiva la questione dei risarcimenti per le «donne-conforto».

Lunedì il governo sudcoreano ha reagito con la rimozione di Tokyo dalla sua «white list». Molti analisti temono più gravi ritorsioni incrociate se Seul procedesse alla vendita di beni sequestrati a imprese giapponesi. In Corea si ventila anche la possibilità di cancellare l’accordo di condivisione di informazioni riservate per la Difesa raggiunto nel 2016. «Non è solo una questione economica: si rischia una erosione dell’architettura della sicurezza - guidata dagli Usa - in Asia orientale», avverte Scott Snyder del Council of Foreign Relations, che invoca un deciso intervento da parte dell’Amministrazione Usa. Difficile non ritenere pazzesco un contenzioso tanto aspro tra due Paesi democratici a economia avanzata, entrambi alleati dell’America e chiamati a fronteggiare sfide strategiche comuni sulla sicurezza.

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