Coronavirus, Africa subsahariana: scanner negli aeroporti ma nessun kit diagnostico
Per il direttore di Medici con l'Africa Cuamm se il virus dovesse arrivare in Africa la preoccupazione sarebbe alta. La malnutrizione diffusa riduce la capacità reattiva del sistema immunitario
di Barbara Gobbi
4' di lettura
«Non c'è dubbio che l'Africa è ad alto rischio, anche se finora non c'è nessun caso confermato di nuovo coronavirus. Il rischio c'è perché il continente è stato particolarmente esposto ai contatti con la Cina che da dieci anni a questa parte ha rafforzato la sua presenza lì del 600 per cento. Senza contare che in Africa subsahariana, dove siamo presenti negli otto Paesi più fragili, i sistemi sanitari sono decisamente deboli dal punto di vista della prevenzione e della cura». Don Dante Carraro è il direttore di Medici con l'Africa Cuamm, la prima Ong in campo sanitario riconosciuta in Italia - è nata nel 1950 – e la più grande organizzazione italiana per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane.
Termoscanne negli scali, ma nessuna barruera per arginare il virus
«In Africa subsahariana ci sono i termoscanner negli aeroporti – avvisa – ma per il resto non abbiamo barriere per arginare un'eventuale epidemia. Mancano kit diagnostici e posti letto per la rianimazione, così come abbiamo sperimentato anche di recente con ebola. Quello che ci conforta è che a oggi non risultano casi, ma se il nuovo virus dovesse arrivare sarebbe molto preoccupante. Come ha detto l'Organizzazione mondiale della sanità, del resto».
Gli Stati dell'Africa subsahariana sono così deboli che nel caso ci dovesse essere una presenza del virus non riuscirebbero neanche a individuarlo?
«La diagnosi è possibile solo a posteriori, sulla base dei dati clinici quando i sintomi sono già evidenti: basti pensare che i microscopi sofisticati, capaci di individuare un virus che è infinitesimamente più piccolo di un batterio, li hanno solo nei laboratori del Sudafrica e del Senegal».
Ma in Africa c'è consapevolezza del coronavirus?
«Sì, se ne parla. Sono rientrato la scorsa settimana dalla Sierra Leone e ancora prima ero in Uganda. Come Cuamm facciamo di solito scalo all'hub aeroportuale di Addis Abeba che è il più grande dell'Africa subsahariana. Lì trovi i termoscanner, come in tutti i principali aeroporti di quell'area, da Kampala a Freetown. Questi apparecchi erano già stati installati 3-4 anni fa per l'ebola e poi sono tornati in auge con il riemergere della malattia nell'ultimo anno. In aeroporto ogni passeggero è sottoposto a due controlli: telecamere che ti inquadrano mentre cammini e individuano se hai la febbre dal colore della tua faccia, che passa dal verde al rosso se la temperatura è alta. E il passo successivo, in caso di “rosso”: un termometro a infrarossi puntato alla tempia misura in modo molto attendibile la febbre della persona».
L'essere già attrezzati per ebola quindi è positivo…
«Certamente, anche considerando che in Africa Subsahariana vivono 800-900 milioni di persone. Nei Paesi anche piccoli ma che hanno vissuto l'ebola il termoscanner c'è. Ed è importantissimo soprattutto ad Addis Abeba, il grande scalo per tutte le compagnie che anche quotidianamente vanno e vengono dalla Cina».
Quindi rispetto ai voli per e dalla Cina non i sono state chiusure o restrizioni?
«Non mi risulta. Nell'aeroporto di Addis Abeba almeno il 50% dei passeggeri sono cinesi o in ogni caso di origine asiatica. E molti di loro indossano la mascherina, che non sarebbe di per sé obbligatoria. E' chiaro che c'è un auto-contenimento da parte della popolazione cinese. Questo ovviamente non toglie il rischio che ai termoscanner sfuggano le persone non ancora sintomatiche».
E se la temperatura risulta alta?
«In questo caso è prevista una sorta quarantena in sale di osservazione fuori dall'aeroporto. Ma c'è da sperare che i casi sospetti siano molto pochi perché anche ad Addis Abeba la capacità ricettiva di questi centri per la quarantena è molto limitata».
Ma se ci dovesse essere un caso acclarato di coronavirus gli ospedali sarebbero attrezzati?
«In ospedale si possono gestire al massimo 3-4 persone: nella stessa Addis Abeba ci sono solo due posti letto per la rianimazione. Durante l'epidemia di ebola ci siamo arrangiati con campi fuori dall'ospedale dove trattavamo i pazienti senza rianimazione, con semplici terapie di supporto per i malati. Morivano e basta. La rianimazione è una struttura complessa che richiederebbe un vero e proprio ospedale da campo. Che lì non c'è».
Quindi anche in caso di un'epidemia da coronavirus, l'unica strategia è non far circolare il virus?
«Esattamente. Del resto dal punto di vista della sanità pubblica l'isolamento è l'unico vero mezzo di contenimento di un'epidemia. Nei Paesi Africani c'è disponibilità di farmaci antiretrovirali perché i ministeri della salute li erogano contro l'Aids. Ma la vera strategia di contenimento è fatta di screening, prevenzione e isolamento dell'eventuale malato».
C'è da fidarsi dei report ufficiali?
«La nostra percezione sul campo e sulla base di quanto stiamo raccogliendo dalla nostra rete di contatti è che al momento in Africa non si registrano casi, in linea con i dati ufficiali che danno l'epidemia concentrata in Cina. Come Cuamm siamo presenti in 23 ospedali dell'Africa subsahariana, strutture private della chiesa cattolica o governative dove tocchiamo con mano la realtà. Negli ospedali c'è attenzione, non c'è paura, ci si protegge nei confronti di chi ha la febbre e si vede se un'eventuale polmonite con l'antibiotico passa. O ancora, se ci sono i sintomi si somministra l'anti malarico e se “funziona” vuol dire che era malaria. Si va per tentativi basandosi sulla clinica. E' l'unica soluzione, in Africa».
Se il coronavirus arrivasse in Africa, quanto potrebbe impattare?
«É difficile dirlo perché è un virus nuovo, in buona parte ancora sconosciuto. Ma non c'è dubbio che se dovesse arrivare in Africa la preoccupazione sarebbe alta. La malnutrizione diffusa anche tra bambini e giovani riduce la capacità reattiva del sistema immunitario. E anche un malato di Aids che non assuma la terapia antiretrovirale è molto soggetto a co-infezioni. L'unica vera arma contro il virus è la prevenzione. Quella che il sistema sanitario italiano, ci tengo a ricordarlo, garantisce a cittadini e stranieri grazie alla copertura universale e a meccanismi semplici, come lo screening e la quarantena».
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