Coronavirus, così la Chiesa si è reinventata per non scomparire durante il lockdown
Come cambia il rapporto tra preti e fedeli al temo della pandemia, proprio nei giorni più santi dell’anno per i cristiani
di Massimo Donaddio
5' di lettura
La convivenza forzata con la pandemia da coronavirus ha costretto tutta Italia (ma anche moltissime altre nazioni) alla quarantena, a una vita completamente trasformata nelle abitudini, nei riti, nell'organizzazione familiare e lavorativa. Questa vita “sospesa” ha anche bloccato e cambiato radicalmente – si spera per il minor tempo possibile – gli affetti, le relazioni (diventate in gran parte “virtuali”) e persino le pratiche di pietà, fortemente inibite in questo tempo di “passione”, che si è sovrapposto fin quasi a coincidere con quello che per la tradizione cristiana è il tempo della quaresima.
Mentre la gente, soprattutto nelle zone focolaio del coronavirus, moriva a centinaia se non migliaia al giorno, i funerali sono sospesi e persino onorare degnamente i proprio cari defunti è difficile. All'angoscia per la situazione generale si aggiunge, infatti, la tristezza di non poter vegliare accanto ai propri familiari morti in questo momento tragico (a prescindere dal tipo di morte di questi ultimi), di non poter restare loro accanto in uno dei momenti decisivi più emotivamente provanti nella vita di ciascuno. Non è facile restare vedovi o perdere genitori in questo lockdown generalizzato. Chi può consolare queste persone rimaste sole, senza il compagno o la compagna di una vita, con figli magari distanti e impossibilitati a spostarsi? D questi casi è zeppa la nostra quotidianità, indagata o meno dai massmedia.
E chi da sempre si trova accanto – o almeno ci prova – a malati, moribondi, famiglie provate dalla sofferenza o finanche dalla disperazione? Chi celebra i riti di commiato o l'unzione degli infermi? I sacerdoti, la Chiesa, dove sono, cosa fanno in questo tempo diverso da tutti quelli che ci hanno preceduto?
La pandemia ha stravolto le tradizioni e i riti più consolidati della storia. Tutte le messe sono sospese, la celebrazione di ogni sacramento pure: la Chiesa si incammina verso la Pasqua come mai era accaduto nella sua storia recente. Il momento culmine dell'anno liturgico e della vita cristiana si celebrerà a porte chiuse, senza la presenza dei fedeli, come mai era avvenuto prima d'ora, tempo di guerra compreso. «È una situazione inedita come è inedita la pandemia in generale», commenta mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti e presidente della commissione cultura e comunicazione della Cei, raggiunto al telefono mentre sta scendendo in città da una Amatrice che ancora attende di veder partire i cantieri della ricostruzione post-terremoto. «Credevamo tutti di essere immuni, qui in Occidente, da fenomeni di questo genere. E anche noi come Chiesa abbiamo dovuto trovare altre forme per stabilire contatti con i fedeli. Lo abbiamo fatto grazie a un po' di creatività e ai tanto vituperati new media, che sono invece un'occasione per recuperare contatti. Certo, noi preti e vescovi – come gli insegnanti – abbiamo dovuto fare un corso accelerato di digitalizzazione, ma i risultati sono quelli di nuovi spazi da abitare, luoghi non così virtuali alla fine, dato che la gente sta e si trova, comunica in questi spazi in una forma diversa di compresenza.
Insomma, facciamo di necessità virtù, ma questa è un'occasione nuova che ci mette in condizione di esplorare territori che per pigrizia o automatismi non avremmo esplorato».
Che Pasqua sarà questa, mons. Pompili? «Una Pasqua vissuta a livello domestico, che ci fa in qualche modo riscoprire la fede ereditata dall’ebraismo, dove al posto dell'altare c'è la tavola, al posto della chiesa, la famiglia: così come l’Israele biblico nel tempo dell'esilio ha dovuto reinventarsi non più intorno al tempio di Gerusalemme ma intorno alla famiglia, così noi ora. Cosa che tra l'altro, secondo me, tornerà utile, perché dobbiamo ripartire proprio dalla famiglia, là dove c'è il nucleo originario dell'annuncio della Chiesa».
Insomma, i sacerdoti restano nello spazio territoriale delle loro parrocchie, per lo più invisibili, ma attraverso il web e i social media si stanno rendendo presenti alle persone. Non si contano ormai le celebrazioni via streaming o attraverso le televisioni nazionali o locali, a partire dalla seguitissima messa di papa Francesco alle 7 del mattino da casa Santa Marta. Le parrocchie si sono trasformate in piccole stazioni di trasmissioni radio o video, senza trascurare i contatti telefonici con i fedeli, come raccomandato più volte ai preti dallo stesso Pontefice, in un momento dove la solitudine sta mettendo a dura prova la tenuta psicologica di numerose persone.
Un esempio pratico di quello che sta facendo una comunità parrocchiale in questi tempi tribolati lo fornisce il prevosto di Lecco, don Davide Milani: «La pandemia ci ha sorpreso mentre concludevamo la preparazione alla quaresima, che abbiamo dovuto purtroppo cestinare così come l'avevamo pensata. Ma la realtà non è un prodotto della nostra programmazione, accade e bisogna assumerla così com'è. La mia preoccupazione oggi è come restare accanto ai miei parrocchiani, soprattutto a quelli che sono soli. Come dare motivi per vivere e sperare».
Da qui un fitto impegno pastorale lungo la settimana, che parte dal trasmettere la messa della domenica in tv e via streaming, anche con l'utilizzo di immagini artistiche. «Durante i giorni feriali noi preti celebriamo la messa alle 12 senza i fedeli, ma suoniamo le campane all'inizio, all'atto della consacrazione e alla fine, chiedendo ai fedeli di unirsi spiritualmente a noi in preghiera. Tutti i giorni spiego il vangelo alla tv, e poi – sempre in televisione – abbiamo realizzato una rubrica di “buone prassi”, un'altra di riflessione (“Motivi per sperare”), e infine “La speranza nell'arte” per un totale di due ore ogni giorno di programmazione televisiva. Abbiamo organizzato un telefono amico, potenziato la mensa cittadina, facciamo la spesa per chi ha bisogno. D'accordo con il sindaco abbiamo stabilito, infine, un momento di celebrazione al cimitero - con poche persone - per salutare i nostri defunti (ripetuto anche tre o quattro volte al giorno)».
Il caso senza dubbio virtuoso di Lecco non può probabilmente essere applicato pari pari a tutte le parrocchie italiane ma lo sforzo di creatività e di reinvenzione della presenza e del ministero pastorale dei preti è un dato che oggi può essere riconosciuto.
Resta la questione dei sacramenti, a cominciare dall'eucaristia, la cui celebrazione è preclusa ai fedeli: essi, ovviamente, hanno bisogno di una presenza reale, non possono essere mediati dal web. Eppure, ricorda mons. Pompili, tra la celebrazione reale e l'assenza totale di celebrazioni, c'è altro che può essere vissuto: «Una soluzione alternativa, forme molteplici rispetto all'appuntamento eucaristico, che non lo sostituiscono ma possono ugualmente aiutare una comunità a ritrovarsi nella fede e in preghiera. Ricordando che noi, come cristiani, siamo sottoposti alle restrizioni vissute anche da altre esperienze pubbliche e che anche questa è una forma di condivisione di questo momento che ci auguriamo possa essere solo temporaneo».
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