Coronavirus, un Dl per ridurre il caos Regioni. E multe per chi viola i divieti
Ipotesi sanzione salatissime e fermo dell’auto. Sul tavolo una clausola per la quale le norme centrali superano quelle dei presidenti, che possono però decidere regole aggiuntive
di Marco Mobili e Gianni Trovati
3' di lettura
Le misure di «distanziamento sociale» da coronavirus arrivano sul tavolo del consiglio dei ministri. La riunione del governo in programma nel pomeriggio, decisa anche dopo un confronto con il Quirinale, dovrebbe trasformare in decreto legge le misure assunte domenica nel decreto di Palazzo Chigi. La mossa serve a blindarle con le sanzioni per chi non le rispetta: si parla di una multa da 2mila euro (ma con la possibilità concreta che possa essere elevata fino a 4mila euro) e del possibile fermo amministrativo dell’auto. Ma anche a provare a superare il caos creato dall’incrocio fra le regole nazionali e quelle scritte nella pioggia di ordinanze regionali. L’idea, che richiamerebbe un principio generale dell’ordinamento, sarebbe quella di un meccanismo per cui i provvedimenti nazionali assorbono, e fanno quindi decadere, le decisioni locali precedenti. Le Regioni potrebbero però intervenire con misure aggiuntive successive, a patto di non andare in contrasto con le regole nazionali.
Perché oggi l’incertezza domina. Per esempio da Torino a Brescia commercialisti, architetti, avvocati e professionisti in genere si chiedono se possono continuare la loro attività come dice il decreto di Palazzo Chigi o devono limitarla agli appuntamenti «indifferibili» dettati dalle scadenze come spiegano le ordinanze regionali di Piemonte e Lombardia. Invece in Emilia Romagna, come in altre Regioni, l’interrogativo riguarda soprattutto supermercati ed esercizi commerciali, a cui le regole regionali impongono una chiusura domenicale assente nei provvedimenti nazionali. Ma dalla Campania che impone l’isolamento fiduciario a chi arriva da fuori, per poi dover chiarire oggi che le esigenze di lavoro o salute permettono di uscire di casa, alla Calabria blindata e alla Sicilia che a Messina chiede un ckeck point sugli sbarchi il menu è parecchio caotico.
La babele è esplosa con il fatto che il decreto di Palazzo Chigi pubblicato in Gazzetta Ufficiale domenica sera non ha nei fatti la forza sufficiente per fissare regole uguali per tutta Italia. Il decreto di Palazzo Chigi è infatti un atto amministrativo “monocratico” come le ordinanze dei presidenti di Regione, in un sistema istituzionale che dopo la riforma del Titolo V non prevede distinzioni gerarchiche fra Stato ed enti territoriali.
Ma è ovvio che non è una più o meno dotta discussione da costituzionalisti a poter risolvere con l’urgenza del caso i grossi problemi pratici creati dalla battaglia delle ordinanze. Anche perché le tante incognite tecniche e pratiche nascono da un grosso problema politico, con le Regioni soprattutto del Nord che hanno tradotto in ordinanze l’accusa al governo di essere stato troppo timido nei tempi e nei modi con le misure di distanziamento sociale.
Da Palazzo Lombardia, dove da molti giorni chiedevano al governo una chiusura generalizzata delle attività non essenziali, tengono il punto ma senza calcare i toni della polemica. E il presidente della Regione Fontana ha scritto al ministero dell’Interno alla ricerca di un’istruzione formale sui rapporti fra ordinanza regionale e decreto di Palazzo Chigi. «Ma i giuristi che abbiamo interpellato – fa sapere Fontana – dicono che deve prevalere la nostra ordinanza». «Noi confermiamo le restrizioni della nostra ordinanza», taglia corto invece il presidente del Veneto Luca Zaia respingendo secco l’ipotesi della prevalenza del «Dpcm arrivato nottetempo». «Dobbiamo chiudere davvero, non per finta», accusa il presidente del Piemonte Alberto Cirio appena guarito dal Coronavirus.
Tutto però dipende da come in queste ore sarà definito il testo finale per armonizzare decisioni nazionali e locali. Perché è chiaro che un decreto legge occupa uno scalino indiscutibilmente superiore alle ordinanze regionali nella gerarchia delle fonti. Ma è altrettanto chiaro che una ripetizione delle distanze fra le indicazioni nazionali e quelle regionali, in particolare su materie “concorrenti” come le professioni o il commercio, riaprirebbe il conflitto.
Il confronto è destinato a riaprirsi anche sulla Pa, perché i sindacati chiedono di ridefinire per legge le attività «indifferibili» che non permettono lo smart working; perché le resistenze dirigenziali qua e là per l’Italia sono ancora molte.
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