intervista

Coronavirus e peste: le analogie dalla bardatura dei medici all’autocertificazione per muoversi

Ora come allora. Una pandemia che ha molte analogie con quella di manzoniana memoria del Seicento

di Nicoletta Cottone

Quando c’era la peste: dai lazzaretti ai bollettini di sanità

5' di lettura

Ora come allora. Conviviamo da mesi con il nuovo coronavirus arrivato da lontano e ora assistiamo alla seconda ondata che ha imposto nuove restrizioni. Una pandemia che ha molte analogie con la peste manzoniana del Seicento, dalla bardatura dei medici all’approccio alle cure, fino alle autocertificazioni necessaria per muoversi. Ne parliamo con la professoressa Simona Feci, docente di Storia del diritto del medievale e moderno all’Università di Palermo.

Una epidemia piomba nella vita di tutti i giorni che succede?

«Se pensiamo alle epidemie del passato, in particolare alle ondate di peste, dobbiamo sapere che queste ondate erano attese dalla popolazione, perché spesso erano presenti contemporaneamente in più luoghi, anche se ancora non erano arrivate nelle città poi interessate dall’epidemia. Si sa che esiste la peste in città e regni più o meno lontani. E quindi all’avvicinarsi del contagio si scatena una grande preoccupazione e una grande paura nella popolazione».

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Che armi si usano per combatterle?

«Le armi impiegate per combattere le epidemia di peste nel passato, nell’età moderna, consistono principalmente nel distanziamento. Quindi nell’isolare e controllare l’accesso alle città, prima che la peste arrivi nel territorio. Non è escluso che la peste arrivi anche attraverso imbarcazioni, come avviene a Palermo nel 1624, con persone che hanno falsi certificati di sanità. La peste arriva da fuori, dunque, attraverso navi, marinai e soldati. Arriva surrettiziamente. La prima cosa da fare, quindi, è il controllo dei confini, dei porti, delle merci e, progressivamente, l’isolamento per evitare che ci sia la diffusione del contagio. Isolamento che riguarda le città o porzioni del territorio urbano, come i rioni. A Roma nel 1656, per esempio, vengono isolate Trastevere e il ghetto. Oppure l’isolamento delle case dove ci sono dei malati e si sospetta che il resto degli abitanti di quella dimora abbiano contratto la peste».

Quali sono i locali delle cure?

«I locali in cui vengono ricoverati i malati sono i famosi lazzaretti, costruiti, anche più di uno, nelle città a seconda delle dimensioni. Lazzaretti dove vengono portati, spesso a forza, i malati, quelli che si tirano fuori dalle abitazioni. Il problema è che i lazzaretti sono luoghi in cui il più delle volte si muore, talvolta si sopravvive, ma sono anche luoghi di trasmissione del contagio, di cui sono le prime vittime proprio i medici curanti e coloro che prestano servizio nei lazzaretti. Esistono poi dei lazzaretti dove si trascorre il periodo di quarantena, come avviene a Roma nel 1656, dove oltre al lazzaretto dell’Isola Tiberina ,c’è un secondo lazzaretto in cui si portano i malati guariti».

Come si svolgono le quarantene?

«Le quarantene si svolgono in modo drammatico nei lazzaretti, luogo di grande disperazione in cui i più attendono la morte. Sono affidate a figure di medici o a religiosi che gestiscono i lazzaretti e nelle varie città ci sono esprienze di ordini regolari che prestano la loro opera in questi luoghi, rischiando la propria vita. Lì si dettano anche le ultime volontà, quindi abbiamo una serie di testamenti, legati all’esperienza della morte imminente del paziente. Si guarisce o si conclude la propria vita, in modo solitario. Sono anche luoghi in cui bisogna avere un controllo formidabile. In alcuni lazzaretti vengono erette al centro le forche per indurre le persone a uniformarsi alle regole, a non uscire, a non fuggire. E regole che costringono a uniformarsi a quelli che sono i principi di separazione in vigore».

Che bardature hanno i medici?

«I medici hanno delle bardatire che li proteggono. Queste bardature le indossano i medici e i monatti, adibiti al trasporto dei malati, quelli che vanno a casa a prendere i malati per portarli nel lazzaretto. Oppure sono addetti al trasporto dei cadaveri. Queste bardature sono la testimonianza dei convincimenti scientifici dell’epoca riguardo alla trasmissione della peste. Una peste che si presupponeva, in alcuni casi, diffusa attraverso l’aria. E questo spiega la protezione del volto e delle vie respiratorie, per esempio con quelle maschere che sono diventate così famose in questi mesi che hanno un lungo naso a forma di becco. E poi camici, guanti, cappelli per esporre il meno possibile porzioni del corpo e dell’epidermide ai miasmi della pestilenza e al contagio con il corpo del malato».

Per muoversi nelle città c’è un lasciapassare?

«Per muoversi nelle città bisogna rispettare le regole di confinamento ed è possibile circolare solo a determinate condizioni, con il possesso di un certificato che attesti le proprie condizioni di salute.Certificati che non sono autocertificazioni come quelle attuali, ma sono rilasciati dalle autorità pubbliche. Ne possediamo una discreta varietà, perché per ogni pestilenza le autorità responsabili della salute pubblica li stampavano e certificavano la condizione di salute del portatore. Naturalmente l’identità del portatore è affidata a quelli che sono i criteri di identificazione dell’epoca: il nome, la statura, qualche segno di riconoscimento come il colore dei capelli. Ma certamente non c’è un documento di identità, un codice fiscale, non ci sono quei segni di identificazione che noi oggi conosciamo, che lo Stato ci impone. C’è anche un commercio di questi bollettini di sanità, un commercio clandestino che è severamente puntito».

Qual è il comportamento delle autorità?

«Dobbiamo sapere che per autorità nel Seicento si intendono quelle laiche e religiose. Le autorità laiche si attivano quasi tutte in modo più o meno efficace. La prima questione che si pone è identificare la pestilenza e stabilire, per ragioni di ordine pubblico, come e cosa comunicare alla popolazione. Perchè la notizia che la peste è arrivata in città scatena il panico. Panico legato anche a questioni relative non solo alla salute delle persone, ma alla tutela individuale, all’approvvigionamento della città stessa e ai commerci, per fare in modo che la cittadinanza sia in grado di sopravvivere durante la pestilenza e, soprattutto, quando si applica un sistema di confinamanto. Quando e come dire che c’è la peste in città e quali provvedimenti prendere. In alcune realtà, come quella di Roma alla metà del Seicento, si rinnova l’istituzione di un comitato di responsabili del governo, ma anche esperti medici che deve delineare le politiche di sanità e i provvedimenti concreti da applicare. Le autorità religiose spesso organizzano delle cerimonie per scongiurare la diffusione della pestilenza o per chiedere alla divinità di porre fine a questo dramma. Ci sono delle importanti processioni che sono vettore di contagio in un modo particolarmente forte. Accanto a questa dimensione religiosa che si esplica nei culti - mentre contemporaneamente le messe vengono interrotte per evitare le occasioni di contagio - c’è tutta una devozione che si sviluppa. Il caso più conosciuto è quello di Santa Rosalia le cui ossa vengono rinvenute in concomitanza con la pestilenza del 1624. E quindi il culto che ancora oggi si celebra con una importante cerimonia, una festa cittadina alla metà di luglio, nasce proprio da quella circostanza, ed è fortemente legata al ricordo della peste di Palermo del 1924».

Qual è la lezione che ci insegna la pandemia?

«Le lezioni sono tante, come sono tante le pandemie. Oggi siamo particolarmente colpiti dalle analogie col passato, ma non dobbiamo fermarci all’apparenza, alle analogie che ci sembrano familiari, ma che in realtà, se riportate ai contesti specifici, mettono in luce quello che è un fenomeno tipico dell’epidemia. Quello che la malattia è capace di accendere una luce particolare sui contesti culturali. L’epidemia è un grande cantiere di messa alla prova, di verifica, di quelli che sono i tratti culturali di una società o di una comunità. E questo lo sperimentiamo oggi attraverso le domande che facciamo al nostro presente. Accentua le paure e le preoccupazioni e proprio nelle soluzioni che vengono date, troviamo i tratti peculiari del contesto. Questo significa che è importante pensare al passato come a un territorio lontano, porre attenzione alle differenze rispetto al presente. E questo fa bene allo studio del passato, ma anche alla lettura del presente, che deve essere fatta anche attraverso gli strumenti della storia, ma valorizzando quelle che sono le specificità del momento. E questo ci aiuta a un’analisi più approfondita del presente, ma anche in prospettiva, ci aiuta a guardare al futuro in modo non passivo, programmatico e in modo fantasioso».

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