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Coronavirus: uscire di casa, tra sindrome del prigioniero e Kamchatka

Resistere, muovendosi negli angusti spazi resi ancora accessibili dalle ultime norme, rispettando distanze, precauzioni, limitazioni

di Carlo Andrea Finotto

Coronavirus, divieto di spostamento dal comune in cui si è

6' di lettura

Cammino verso la farmacia. Saranno circa 500 metri, ma in ogni caso scelgo di non passare per il viale principale e più diretto. Preferisco un percorso più tortuoso, per allungare un po’ il tragitto e incontrare meno persone.

Dopo pochi passi mi supera lentamente una Panda dei Carabinieri. Ho l’impressione che rallenti. Va oltre. Io, comunque, sono tranquillo: ho in tasca l’autocertificazione e toccarla spesso mi dà sicurezza.

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Auto e persone sono rarefatte
Pochi minuti prima, ancora a casa, ho stampato il foglio ufficiale diffuso dalla Polizia e l’ho compilato barrando la casella “situazioni di necessità”, che esplicito con «medicinali, pane, sigarette». È l’ultima versione, quella con la dichiarazione di non essere positivi al Covid19 e di non essere sottoposti a quarantena.

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Nei giorni scorsi, durante le precedenti sporadiche uscite per le poche commissioni consentite, auto e persone eran0 rarefatte come dev’essere l’aria in cima all’Everest: ora sono praticamente scomparse e il silenzio è davvero surreale per essere una mattina di un giorno lavorativo. L’escalation di decreti del governo e di ordinanze regionali e comunali ha via via limitato spostamenti e sortite.

Il “bar del Bruno” termometro dell’emergenza
La misura dell’emergenza crescente ce l’avevamo già prima dei Dpcm in rapida successione: il primo step è stato entrare al “bar del Bruno” e trovare una fila di sgabelli per distanziare i clienti dal bancone. Due giorni dopo il secondo stadio: al posto degli sgabelli Bruno aveva messo dei tavolini quadrati più o meno di un metro di lato. La fase tre dell’emergenza è stata la chiusura. Da allora viviamo tutti un po’ sospesi. Ognuno senza la propria piccola routine personale.

La vita è fatta anche di piccole cose, anzi forse è fatta soprattutto di piccole cose: accompagnare la figlia a scuola e la moglie al lavoro, prendere un caffè insieme prima di salutarsi, tornare a casa a piedi, salire in auto e andare in ufficio.

Siamo passati dagli aperitivi e dalle cene con gli amici a buttare i rifiuti nel cassonetto per uscire almeno in cortile. La spesa oltre a una necessità è un diversivo, un’azione quasi trasgressiva. Il tabaccaio quello no: all’indomani del primo decreto ho acquistato una stecca di Gauloises per non correre rischi.

Una forma minima di resistenza
Uscire è anche una parentesi minima di ritorno alla normalità, con la prospettiva che per la normalità vera serviranno ancora parecchie settimane.

Uscire è anche a suo modo una forma minima di resistenza: al coronavirus e al rischio alienazione. Non si tratta di replicare il “dilemma del prigioniero” evocato da Vittorio Pelligra in un articolo sul Sole 24 Ore. Non si tratta di “parassitare” il ligio comportamento dei più, ottenendo i “benefici” dell’aria aperta senza incorrere nei costi, vale a dire il rischio di contagio. Si tratta di muoversi negli angusti spazi resi ancora accessibili dalle ultime norme, rispettando distanze, precauzioni, limitazioni.

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Un futuro da hikikomori?
In casa c’è tutto e quello che manca puoi ordinarlo. Pure la pizza o la spesa ti portano. Sei connesso. C’è lo smart working. Potresti non uscire mai, anche senza coronavirus, e scivolare progressivamente verso lo stato di hikikomori: quello dei giovani giapponesi che si isolano dal mondo reale e vivono quasi solo una vita virtuale. Forse il destino distopico post coronavirus sarà questo e qualcuno finirà anche per sposare un ologramma, come ha fatto un 35enne di Tokyo.

Mia figlia preadolescente impiega queste settimane per una sua personale “cura del sonno” che porta avanti ogni mattina da quando le scuole sono chiuse, per poi trascorrere le giornate tra lezioni a distanza, compiti, videochiamate con le amiche. L’altra sera a cena, quando mia moglie le ha chiesto se le mancassero gli amici ha risposto: «Voglio tornare a scuola», con le lacrime agli occhi.

Una finestra sulla normalità
Uscire “sfruttando” le finestre previste dal governo, dal presidente della regione, dal sindaco, non è una forma di egoismo irresponsabile. È un piccolo spazio di normalità consentito.

Così eccomi qui, con il mio giubbotto comprato in rua do Norte, a Lisbona in viaggio di nozze 14 anni fa, che cammino verso la farmacia.

Percorro le stradine curve dei quartieri spagnoli, non incontro nessuno. Adoro questa parte della città. Passo davanti all’ingresso seicentesco dell’ospedale: è chiuso, sprangato. Prima medici, specializzandi, infermieri in bicicletta ci si infilavano a tutta velocità e con la stessa destrezza di Peter Sagan sulle strade della Parigi-Roubaix. Ora si entra solo dall’entrata principale, dall’altra parte dell’isolato.

Arrivo a destinazione, è presto e sono l’unico cliente. Le farmaciste sono protette da un vetro e bardate come i medici della terapia intensiva, con mascherine e occhialoni. Ordino, ritiro i medicinali, pago ed esco.

L’uomo con il cocker
La farmacia non è esattamente nel quartiere dove abito, perché quella è stata chiusa proprio a causa di un caso di Covid19. Comunque, quella da cui sono appena uscito non è troppo distante e ci sono venuto perché le dottoresse sono amiche di mia moglie e lei aveva prenotato lì i medicinali. Li aveva prenotati prima delle restrizioni.

Mi sto giustificando mentalmente, come fossi davanti a un inquisitore o a una commissione d’esame.

In lontananza, dal mio stesso lato mi viene incontro un uomo con un cocker spaniel: penso che assomiglia a Carlos, il cane della mia collega. Ha l’aria simpatica, anche se ho letto da qualche parte che i cocker siano feroci, a dispetto delle apparenze.

Non posso fare a meno di riflettere: «Perché non abbiamo un cane? Forse ha ragione mia figlia a volerlo, se le avessimo dato retta adesso avrei al guinzaglio un lasciapassare perfetto». In ogni caso scendo dal marciapiede e cammino in mezzo alla strada, tanto di auto non ne passano.

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Camminare tra le pagine di Kamchatka
I pochi sguardi che incrocio sono sospettosi. Evocano uno scenario cui non siamo abituati, da caccia all’untore. Punto sul panettiere un centinaio di metri più avanti, aspetto il turno fuori dal negozio, entro, compro due baguette, me le infilo sottobraccio come un finto parigino pensando che saranno la giustificazione lampante alla mia presenza in strada.

Rumore zero, o quasi. Sento soprattutto qualche latrato di cane: alcuni sono confinati sui balconi, anche loro reclusi. Si eccitano quando vedono un loro simile o un passante: abbaiano come sentinelle, come oche del Campidoglio, forse per richiamare l’attenzione delle guardie.

Mentre cammino verso casa con il mio bottino in bella evidenza, da una strada laterale sbuca un’auto della polizia che procede lentamente. Mi sento come quegli studenti che cercano di passare inosservati quando il professore decide chi interrogare. La volante avanza a passo d’uomo e, non so perché, a me viene in mente Kamchatka di Marcelo Figueras, con il bambino protagonista e la sua famiglia che cercano di rendersi invisibili in una Buenos Aires oppressa dalla giunta militare di Videla.

La guerra, quella vera
Penso, esagerando decisamente, che questa forse è la “nostra guerra”, ma subito me ne pento ricordando i racconti di mia mamma bambina, in montagna: ogni giorno 4 km a piedi per raggiungere la scuola e altrettanti per tornare a casa, e la paura ogni volta che i partigiani nascosti tra gli alberi sotto la strada la chiamavano per darle un biglietto con l’elenco delle cose di cui avevano bisogno da consegnare a mio nonno, che gestiva una cooperativa alimentare: «Paga Moscatelli» le dicevano. Moscatelli, “Cino”, era uno dei comandanti delle Brigate Garibaldi nel Nord Italia. Non so se abbiano mai pagato davvero, ma non importa. E la paura, di mia mamma, ancora più grande quando veniva affiancata da un camion di tedeschi che le chiedevano dove andasse, se fosse una spia dei partigiani, se li avesse visti. E il sollievo quando si allontanavano senza risultati, lasciandole delle gallette quasi per scusarsi.

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Mia madre ora vive a 65 km da casa mia, è anziana, piena di acciacchi, fatica a muoversi, non sa cosa sia skype e ignora l’esistenza di whatsapp o dei social: non ci vediamo da settimane a causa di questa specie di coprifuoco, ci sentiamo ogni tanto al telefono.

Polizia e baguette
L’auto della polizia, intanto, si avvicina. Magari uno dei due agenti ha notato le baguette, magari gli stanno antipatici i francesi in questo nuovo clima di libertà sospese misto a un rigurgito di nazionalismo. Magari decide di controllarmi. Ok, tanto se mi fermano ormai sono nel “mio” quartiere e ho anche i medicinali. Però potrebbero notare lo scontrino e lo scontrino è di una farmacia distante. So per certo che un collega è stato fermato mentre era al bancomat e i militari hanno voluto vedere l’autocertificazione e conoscere il tragitto nel dettaglio e accertarsi che non avesse deviato dal percorso più breve e fosse semplicemente “in giro”.

I poliziotti mi affiancano, proseguono, vanno oltre. Sono quasi a casa: forse la vita da hikikomori ha dei vantaggi. Ma io voglio tornare al lavoro.

Per approfondire:
Tra altruismo e opportunismo: come il coronavirus potrebbe cambiare le regole sociali
Vivere con l'ossessione dell'autocertificazione
Animali di compagnia ai tempi del coronavirus. Quali regole in condominio?

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