Cosa non troverete in “The Last Dance”, la docu serie su Michael Jordan
Fino al 18 maggio, Netflix pubblicherà due puntate alla settimana: curiosità e segreti di un fenomeno non solo sportivo
di Emilio Cozzi
9' di lettura
Fino al 18 maggio, Netflix pubblicherà due puntate alla settimana: curiosità e segreti di un fenomeno non solo sportivo
“Era Dio travestito da Michael Jordan”. Correva il 20 aprile 1986 e a pronunciare queste parole fu nientemeno che Larry Bird, da molti considerato il cestista bianco più forte di tutti i tempi. Bird, che di lì a poche settimane avrebbe regalato il sedicesimo titolo ai suoi Boston Celtics, aveva appena sconfitto nella seconda gara di Playoff i Chicago Bulls. Anche se sarebbe più corretto dire che i Celtics avevano battuto Michael Jordan, che quella sera, contro i futuri campioni, aveva segnato 63 punti, record tuttora insuperato nei Playoff Nba.
“The Last Dance”, la docu-serie in dieci episodi che due per volta Netflix pubblicherà ogni lunedì fino al 18 maggio, inizia molto dopo quella prima, divina epifania: prodotta da Espn e diretta da Jason Hehir (già autore di “André the Giant” e “The Fab Five”), la serie parte quando la chiesta di Michael Jordan conta già milioni di adepti ovunque nel mondo, all'inizio della stagione 1997/'98.
In quel momento, “l'arcangelo dei canestri”, come lo avrebbe definito il biografo Roland Lazenby, non solo è già un fenomeno dalla portata ben più ampia dello sport, ma con i suoi Bulls è reduce dal quinto anello in sette anni. I Tori di Chicago, che oltre a Jordan schierano Scottie Pippen, “il miglior secondo violino della storia”, Toni Kucoč e Dennis Rodman sono considerati la squadra di basket più forte di sempre, qualcuno dice “i Beatles della pallacanestro”. Per loro, però, il capolinea è vicino: Jordan, che ha appena firmato un contratto da 33,1 milioni di dollari (ne voleva 36), ha già fatto capire che si ritirerà a fine stagione (cosa puntualmente avvenuta, salvo un ritorno a sorpresa anni dopo); Pippen, insoddisfatto per il suo trattamento economico, è in aperto contrasto con la dirigenza e Phil Jackson, “l'allenatore zen”, strappa un contratto da un anno (e sei milioni) con la clausola che poi dovrà andarsene: succeda quel che succeda, i Bulls verranno rifondati a fine stagione.
“It's the last dance” dice Jackson alla squadra, l'ultimo ballo prima dei saluti. “Godetevene ogni momento” aggiunge l'allenatore che qualche anno più tardi porterà in trionfo anche i Lakers di Shaquille O'Neal e Kobe Bryant.
E godimento è proprio quello che “The Last Dance”, la serie, promette a ogni appassionato. Beninteso, non solo a ogni appassionato di Jordan, dei Bulls, o di basket: ma a chiunque voglia capire come un mix inusitato di talento, determinazione e tecnologia (fu nell'epoca Jordan che i ralenti e le riprese televisive permisero al mondo di incantarsi davanti alle prodezze acrobatiche degli atleti) trasformò un atleta e la sua squadra in un paradigma di eccellenza e di marketing toccando, nel mentre, uno dei picchi più alti dello sport in quanto narrazione, qualcosa in grado di superare divisioni sociali, confini geografici ed epoche. Non è un caso che a più di 20 anni da allora sia stato il pubblico di tutto il mondo, chiuso in casa dalla pandemia, a suggerire a Espn e a Netflix di pubblicare la serie oggi, due mesi in anticipo sulla data prevista: Jordan e i Bulls sono (stati) ben più di un gioco.
“The Last Dance” racconta questo e molto altro. Frutto di un accordo che ha permesso alla troupe di seguire la squadra in ogni momento, la serie rivela per la prima volta glorie, drammi e retroscena finora noti solo alla corte dei Bulls. E a un tempo ne testimonia l'importanza e l'eco planetaria. Giusto per chiarire il peso degli eventi, nei primi due episodi sfilano le interviste a Barack Obama – “quando Jordan mise Chicago sulla mappa, ero spiantato. Non potevo permettermi di andarlo a vedere dal vivo” – e a Bill Clinton, connazionale di Pippen: non è solo di pallacanestro che tratta Hehir. È di un mondo e dei suoi nuovi eroi, “idoli travestiti da cestisti” per dirla come Bird, che “The Last Dance” racconta apice e tramonto. Eppure ci sono cose che nemmeno nella serie, accuratissima e spietata nel raccontare tutto, troverete. Di seguito ne anticipiamo alcune.
1)Un messia sì, ma tutt'altro che povero
Larry Bird a parte, il mito della divinità di Jordan venne alimentato per anni. A coltivarlo non furono tanto lui o la squadra, quanto la reazione di tutto il mondo a qualsiasi cosa li riguardasse. Fu un culto prossimo all'isteria religiosa come è evidente in quasi ogni scena di “The Last Dance”, pronta a testimoniare bagni di folla, lacrime e urla ovunque Jordan si muovesse. Sebbene nel documentario di Hehir non ce ne sia traccia, come ricorda la storico ufficio stampa dei Bulls, Tim Hallam, non era raro che qualcuno cercasse Jordan chiedendo se “Gesù fosse negli spogliatoi”.
Di origini ugualmente umili – nonno e bisnonno Jordan si erano affrancati da situazioni molto vicine alla schiavitù -, Jordan si è tuttavia differenziato dal nazareno in quanto a ricchezze accumulate: il 23, e per conseguenza la dinastia dei Chicago Bulls negli anni '90, sono fenomeni inscindibili dalla contestuale esplosione mondiale della Nba e dei diritti televisivi, cresciuti a dismisura nello stesso periodo (fu peraltro questo il motivo dell'attrito fra i Bulls e Pippen, cui il contratto a lungo termine non venne mai adeguato a un giro d'affari ingigantitosi nel mentre).
Già dalla stagione del suo debutto, il 1984, Jordan portò gli spettatori di Chicago, all'epoca circa 6mila a sera, a riempire l'arena per i successivi 14 anni della sua permanenza ai Bulls. Lo stesso successe nei palazzetti avversari, gremiti fino all'inverosimile a ogni visita dei Tori, nonché sulle reti televisive di tutto il mondo. Jordan e la sua squadra hanno giocato le quattro finali Nba più viste di tutti i tempi, con un picco di pubblico di 29 milioni di persone a partita nel 1998 (nei soli Stati Uniti). Quando Jordan ha lasciato i Bulls dopo il suo secondo ritiro, quello promesso a inizio della “last dance”, l'audience delle finali è crollato del 45% e non è mai più tornato ai fasti di prima (le Finals più seguite negli anni successivi sono quelle fra i Golden State Warriors e i Cleveland Cavaliers del 2016/17, quando gli spettatori sono stati 20 milioni a sera).
Atleta più ricco di sempre, oggi Jordan vanta un patrimonio personale che Forbes stima in 2,1 miliardi di dollari. Mentre la maggior parte dei miliardari ha peraltro accusato perdite negli ultimi 12 mesi, il patrimonio netto dell'ex 23 dei Bulls è aumentato di 300 milioni di dollari grazie all'incremento di valore degli Charlotte Hornets, la franchigia Nba di cui possiede il 70%, e di altri 145 milioni provenienti soprattutto dalla Nike, suo partner dai tempi del debutto e storia nella storia: l'azienda dello Swoosh deve infatti buona parte della sua fortuna al legame con Jordan e alle tante trovate di marketing sviluppate con lui, a cui dall'inizio dedicò una linea di scarpe personalizzata, la “Air” – il primo soprannome di Jordan, che secondo molti “volava” sul campo da basket -, così proficua da essersi trasformata, oggi, in un marchio a sé stante. Nel 2019 gli introiti registrati dalla Nike negli Stati Uniti per il solo brand Jordan sono stati di 130 milioni di dollari, il quadruplo di quanto fatto incassare da LeBron James, il secondo testimonial di maggior valore nella Nba. Serve far notare che James è ancora in attività mentre Jordan non gioca una partita ufficiale dal 16 aprile del 2003? Appunto, miracoli.
2)La più grande paura di Jordan.
Come ogni Superman che si rispetti, anche Michael Jordan ha la sua criptonite. No, nessun difensore o schema, nemmeno le famigerate “Jordan rules”, quelle ideate per batterlo da Chuck Daly e dai suoi Detroit Pistons, l'unica squadra a fine anni ‘80 capace di rallentare l'ascesa del futuro messia del cesto schierando Isiah Thomas, Bill Laimbeer e Dennis Rodman (poi compagno d'anelli di MJ).
A terrorizzare Michael è l'acqua. La fobia risale a un tragico incidente in cui fu coinvolto da bambino, quando, al mare con un amico, questi trascinato dalla corrente e preso dal panico gli si aggrappò con tutte le forze, trascinandolo giù mentre affondava. Per salvarsi la pelle, istintivamente Michael riuscì a liberare il braccio, ma perso l'appiglio il compagno affogò.
Pare che proprio per questa paura – “per pigrizia” corresse sempre suo padre -, Jordan si sia licenziato dal suo primo e unico lavoro extra sportivo, quando nel 1980 la madre lo spedì a occuparsi della manutenzione di un albergo di Wilmington, in North Carolina, dove i Jordan vivevano: sebbene fosse fra le sue mansioni, il futuro campione non si avvicinò mai alla piscina dell'hotel. Figurarsi pulirla.
3)Che cosa successe davvero quando Jordan venne escluso dalla squadra delle superiori
Si dice che l'ossessione per i miglioramenti di Michael Jordan sia nata sul parquet della Laney High School, la squadra liceale della sua Wilmington, da cui fu estromesso nel 1978 per scelta dell'allenatore, Clifton “Pop” Herring, bisognoso sotto canestro di chilogrammi e centimetri che il quindicenne ancora non aveva. “The Last Dance” ripercorre accuratamente i perché di quell'esclusione e soprattutto il ruolo che ebbe nel forgiare la mentalità della futura stella (“fu lì lì per smettere di giocare” ricorda la madre). Quel che nemmeno il documentario approfondisce è però la cura che a Jordan fu dedicata, nei mesi successivi, proprio da coach Herring, ingiustamente passato alla storia per lesa maestà.
In realtà l'allenatore, afflitto di lì a poco da gravi problemi psicologici, fu in buona parte responsabile della qualità tecnica e del destino di Jordan: non solo, una volta inseritolo in squadra la stagione dopo, decise di allenarlo da guardia (il futuro ruolo da professionista) sebbene la nuova altezza del giocatore, cresciuto di 15 centimetri in pochi mesi, suggerisse di usarlo come centro, ma ogni mattina per più di un anno passò a prelevarlo da casa per migliorarne personalmente i fondamentali. Nell'autunno del 1979, prima ancora che Jordan debuttasse nella squadra di Herring, fu sempre quest'ultimo a scrivere una lettera alla prestigiosa University of North Carolina per cercare di attrarne l'attenzione. Se tre anni più tardi, con un tiro allo scadere di Jordan, North Carolina vinse il secondo titolo Ncaa della propria storia, parte del merito fu del bistrattato Herring, morto il dicembre scorso a 66 anni.
4)Il lato oscuro dei Jordan
“The Last Dance” è obbiettivo nel mostrare luci e ombre di una lega sportiva votata al business e delle sue icone globali – l'egoismo di campioni “larger than life”, l'ossessione di Jordan per la vittoria, sfogata fuori dal campo nella passione pericolosa per il gioco d'azzardo, la spietatezza nei confronti degli avversari ma anche dei compagni di squadra - tuttavia non sono poche le questioni private su cui il documentario non si sofferma. La più controversa è l'accusa di abusi sessuali nei confronti del padre che la sorella maggiore di Michael, Deloris, confessò poco prima di abbandonare la casa d'infanzia.
Tornato alla ribalta grazie alla biografia di Michael firmata da Lazenby e al libro autobiografico di Deloris, “In My Family's Shadow”, l'argomento è diventato un tabu sia nella cerchia più intima dei Jordan, sia per non macchiare la leggenda del 23, ammantata da un'aura di serenità famigliare costruita ad arte negli anni, una storia in cui James Jordan – il genitore – era un rifugio rassicurante per chiunque gli vivesse accanto. Per il messia del parquet, suo padre era un punto fermo indiscutibile. Fu intatti dopo il suo assassinio, avvenuto per mano di due rapinatori il 23 luglio del 1993, che Michael si ritirò la prima volta dal basket professionistico.
5)“La partita più fantastica” e il trattamento Kucoč
Sebbene la evochino in molti, “la partita di basket più fantastica della storia” (parole di Jordan) in “The Last Dance” non si vede. D'altronde, quando venne giocata, il 22 luglio del 1992, stampa e telecamere non erano ammesse. Fu un match di allenamento, disputato a Monaco pochi giorni prima delle Olimpiadi di Barcellona da quello passato alla storia come il primo, e per molti unico, “Dream Team”, la squadra di basket degli Stati Uniti. Fu un escamotage ideato dall'allenatore Usa, Chuck Daly – sì, quello dei Pistons – per aumentare la concentrazione dei giocatori, a suo avviso troppo rilassati a pochi giorni dall'inizio delle gare ufficiali. Il coach ottenne ben più di quanto avesse previsto: d'altronde schierare Charles Barkley e Magic Johnson, che a causa dell'hiv conclamato non poteva giocare da mesi, contro Jordan e Pippen, reduci dal secondo anello in fila, fu come dar fuoco alle polveri. Risultato? Dopo il vantaggio iniziale dei suoi “blu”, Magic vide Jordan segnare 17 punti in un baleno e far vincere i suoi bianchi 40 a 36. Diverse testimonianze, come il libro “Dream Team” di Jack McCallum, parlano di un Magic infuriato per i due giorni successivi e di un Jordan pronto in ogni occasione a cantargli in un orecchio il motivetto di un suo celebre spot: “Sometimes I dream if I could be like Mike”. Ad anni di distanza l'ex stella di Chicago non ha dubbi e parla di quell'amichevole come “dell'esempio più puro del gioco del basket”. Magic, smaltita la rabbia, oggi sorride: “Sempre ce ne fosse ancora bisogno, fu chiaro a tutti che in città era arrivano un nuovo sceriffo”.
La leadership venne ribadita poche settimane dopo, questa volta in una gara olimpica, quando gli Stati Uniti incontrarono la Croazia di Toni Kukoč, nuovo acquisto dei Bulls a giudizio di Jordan e Pippen pagato troppo. Per ridimensionarne il valore, i due decisero di difendere alla loro maniera. Nel solo primo tempo, rubarono undici palloni a Kukoč, che di suo ne perse altri sette forse annichilito da tanta furia. Il croato segnò 4 punti in tutto (due su tiri liberi) e la sua nazionale perse di 33. Gli sceriffi, in città, erano diventati due.
“A volte mi chiedo come sarà un giorno ripensare a tutto questo – dichiarò un giorno Jordan, quando era ancora in attività –mi chiedo se almeno mi sembrerà reale”.
Difficile rispondere, perché che tutto sembri un sogno è ipotesi verosimile. “The Last Dance” testimonia almeno che sognammo a occhi aperti. E tutti insieme.
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