Cosa serve davvero per una leadership di cura e di prossimità
Dal perdono all’educazione, dall’umorismo al realismo: breve viaggio nelle attitudini necessarie per relazionarsi con l’altro in modo efficace
di Gianluca Rizzi *
4' di lettura
Il trend di pensiero attuale relativo allo stile manageriale e della leadership in generale sembra oramai chiaro e consolidato: occorre sapersi relazionare con colleghi e collaboratori avendo cura innanzitutto della persona che c’è dall’altra parte e che si porta dietro ambizioni, desideri, esigenze, frustrazioni e timori. Le ragioni del consolidamento di questo trend le conosciamo benissimo e si riferiscono al mutamento radicale ancora in corso nel mondo del lavoro. Il mutamento a sua volta viene dai fatti sanitari, economici, finanziari e sociali che hanno segnato la nostra epoca negli anni recenti.
Quando poi si entra nel merito del sottostante del nuovo stile di leadership, si ritrovano attitudini, competenze e propensioni che in fondo conoscevamo già e che riguardano l’ascolto, l’empatia, la cura, la prossimità, la comprensione, ecc. E ognuna di queste competenze si porta dietro anche una “manualistica” di approcci e tecniche che dovrebbero consentire di esercitarsi e migliorare nell’utilizzo di queste modalità di relazione.
La dimestichezza con la tecnicalità è condizione necessaria, ma rischia di non essere sufficiente nella misura in cui un ruolo importante lo giocano due aspetti: le intenzioni e la propria disposizione.
Detto in altri termini, la leadership può esprimere quelle qualità e quelle modalità sopra citate a patto di essere “psicologicamente risolta”. Metto l’espressione tra virgolette proprio per riferirmi a una dimensione più ampia che travalica quella psicologica in senso stretto e che quindi si riferisce alla capacità del singolo leader di non dico avere compiuto ma di essere in un percorso che consenta di avere maturato un buon grado di consapevolezza e, per certi versi, saggezza.
Qui il mio riferimento è rappresentato da un ottimo testo di Alain De Botton, tanto celebre quanto abile divulgatore, intitolato “Un’educazione emotiva”. La capacità di questo testo di parlare di e a ognuno di noi unendo sapientemente semplicità e leggerezza a una grande e consapevole profondità è davvero notevole. Come dicevo, mi riferisco a questo testo per citarne un elenco in particolare, ovvero quello degli ingredienti, secondo l’autore, che stanno alla base della saggezza degli individui.
La ragione per cui mi permetto di citarli (alcuni con maggiore dovizia di particolari e altri en passant) consiste nel fatto di trovarli utilissimi come cartina tornasole della propria disposizione, ovvero quella condizione che citavo come indispensabile per approcciarsi allo stile di leadership contemporaneo. E si badi bene che quando parlo di leadership non intendo necessariamente l’avere un gruppo di persone al seguito.
1) Follia: da intendere come la capacità di riconoscere e accettare le contraddizioni del reale e di intravedere quanto più è possibile le “moltitudini” di pensieri, emozioni e punti di vista, anche incoerenti e contraddittori, insiti nelle persone e nelle situazioni, compresi se stessi.
2) Perdono: riguarda quella propensione, da coltivare quotidianamente, alla cosiddetta “interpretazione caritatevole” ovvero il sapere leggere negli sgarbi e nei soprusi degli altri, magari nei nostri confronti, solo il frutto della loro drammatica fatica e della umana frustrazione.
3) Educazione: la cosiddetta epistemologia identitaria ovvero quella tendenza a considerare come vero solo quello che coincide con la nostra visione del mondo ci fa perdere molte opportunità di reale contatto umano con la diversità; accostarsi, educatamente, all’altro per coglierne il punto di vista è un buon modo di approcciarsi al “diverso-da-noi”.
4) Invidia: mai dimenticare che la fortuna gioca sempre un ruolo nelle nostre vite e che sapere riconosce quando ci è favorevole e quando no e sapere riconoscere questo contributo anche nelle vite altrui ci aiuta a ridimensionare la frustrante sensazione dell’invidia che potrebbe derivare dal confronto tra successi nostri e altrui.
5) Umorismo: inteso come la capacità di sorridere con leggerezza della divaricazione che spesso si apre tra ciò che dovrebbe essere o ciò che vorremmo che fosse e quello che poi è effettivamente è o accade; troppo spesso questa distanza ci genera una inutile frustrazione.
6) Successo e fallimento: strettamente legata dunque all’umorismo è quella capacità di mettere in conto, nella propria vita, successi e fallimenti, considerandoli entrambi come contingenti e non necessariamente legati al nostro valore in assoluto come persone e professionisti.
7) Realismo: è la sintesi tra successo/fallimento e umorismo: spesso ce lo diciamo ma non necessariamente agiamo come se avessimo davvero introiettato l’idea che le cose non saranno semplici, che incontreremo delle difficoltà e che potremmo persino trovarci impantanati a un certo punto.
8) Rimpianti: resta la certezza che tante decisioni, anche importanti, le prendiamo (e continueremo a prenderle) se non al buio, di fatto con gli elementi a disposizione in quel determinato momento; pertanto, i rimpianti in realtà sono inevitabili e il perfezionismo è una pia illusione.
E poi ancora vengono citati l’apprezzamento (verso le piccole cose del quotidiano), l’accettazione di sé, la resistenza e la calma. Possono sembrare considerazioni figlie del semplice buon senso ma in realtà sono vere e proprie attitudini tutt’altro che banali e scontate; soprattutto rappresentano l’indice di quel grado di saggezza necessario da parte di ognuno di noi per esercitare quella forma contemporanea di leadership necessaria per entrare efficacemente in relazione con l’altro.
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