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Cosa sono le vendite allo scoperto e perché vietarle (non sempre) funziona

Vendere un titolo preso in prestito sperando di restituirlo a un prezzo inferiore. I pro e i contro dell’operazione «regina» della speculazione

di Maximilian Cellino

3' di lettura

Vendere oggi un titolo che non si possiede e che si è preso a prestito per riacquistarlo domani a un prezzo si spera ancora inferiore in modo da restituirlo a chi ce lo ha ceduto e effettuando così un guadagno. Tradotto in soldoni, funziona in questo modo semplice e immediato il meccanismo delle vendite allo scoperto che secondo molti rappresenta la quint’essenza della speculazione finanziaria. La Consob lo ha vietato nei giorni scorsi per tre mesi su 83 azioni quotate a Piazza Affari, con una mossa adottata già in passato nelle fasi complicate, ma che stenta per ora a dare i frutti.

La spiegazione tecnica
Tecnicamente le vendite allo scoperto (dette anche short selling, con linguaggio anglosassone) sono secondo la definizione di Borsa italiana «un’operazione finanziaria che consiste nella vendita di strumenti finanziari non posseduti con successivo riacquisto» e che appunto «si effettua se si ritiene che il prezzo al quale gli strumenti finanziari si riacquisteranno sarà inferiore al prezzo inizialmente incassato attraverso la vendita». Nel caso quest’ipotesi si verifichi il rendimento complessivo dell'operazione di vendita allo scoperto sarà quindi positivo, mentre risulterà viceversa negativo se il prezzo dello strumento è invece nel frattempo aumentato.

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Le controindicazioni
Quest’ultimo caso non certo infrequente e dà vita a rincorse altrettanto frenetiche, stavolta in acquisto,che chi è rimasto con titoli allo scoperto «in mano» corre a effettuare per tamponare le forti perdite che sta subendo. In modo altrettanto speculare si finisce quindi per dar spesso vita a bruschi recuperi delle azioni (o degli altri strumenti interessati dal fenomeno, come obbligazioni e titoli di Stato) in nome di quelle che vengono chiamate in gergo «ricoperture».

Il funzionamento
Ancora dal punto di vista squisitamente tecnico «gli strumenti finanziari vengono prestati temporaneamente al venditore allo scoperto dalla banca o da un intermediario finanziario», spiega ancora Borsa Italiana, aggiungendo che in genere per questo prestito «viene pagato un interesse annuale al broker in relazione alla durata in giorni dell’operazione di vendita allo scoperto». Oltre a pretendere questo interesse, che varia sulla base di ciascun titolo, il broker richiede di prestare un «margine di garanzia» per l’operazione, per esempio il 50% del controvalore scambiato.

La questione dei margini
Nel caso di un’operazione di vendite allo scoperto il profitto potenziale è infatti limitato rispetto a un normale acquisto con successiva vendita, perchè se in quest’ultima non esiste un limite superiore raggiungibile, per lo short selling esiste invece un limite inferiore pari a zero oltre il quale non si può ovviamente andare. Per il venditore allo scoperto la perdita potenziale è quindi illimitata e proprio per questo motivo, osserva Borsa Italiana «il broker non solo congela i fondi provenienti dalla vendita allo scoperto, a garanzia e copertura del successivo riacquisto, ma richiede anche un ulteriore importo, il margine di garanzia, per tutelarsi dalla possibilità che il venditore riesca a ricoprirsi riacquistando i suddetti strumenti finanziari con prezzi considerevolmente maggiori a quelli di vendita». Ed è spesso quando siamo chiamati a ristabilire questo margine, in caso di perdite potenziali, che tipicamente scatta il meccanismo delle «ricoperture» al quale si accennava poco sopra.

Servono o no?
Sull’efficacia
di imporre lo stop alle vendite allo scoperto come stabilito nei giorni scorsi dalla Consob e da altre authority negli altri Paesi europei non c’è unanimità di vedute fra gli esperti. Uno studio pubblicato due anni fa dall’European Systemic Risk Board (Esrb) - l’organizzazione che dal 2010 ha il compito di sorvegliare il sistema finanziario Ue e di prevenire i rischi sistemici - nel quale si analizzavano gli interventi imposti durante la crisi subprime del 2008-2009 e in quella successiva del debito pubblico del 2011-2012 giungeva per esempio a conclusioni ben differenti, se nn diametralmente opposte .

«Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, le istituzioni finanziarie sulle cui azioni sono stati applicati divieti alle vendite allo scoperto hanno sperimentato un incremento delle probabilità di default e della volatilità quando le si confronta con società di caratteristiche simili che non sono state però oggetto di provvedimenti del genere, e l'effetto è stato ancora più marcato per le istituzioni più vulnerabili», spiegavano Marco Pagano e Saverio Simonelli dell’Università Federico II di Napoli, curatori della ricerca con Alessandro Beber e Daniela Fabbri della Cass Business School. Ogni caso fa ovviamente storia a sé, ma occorre comunque guardarsi sempre da soluzioni semplici che cercano di risolvere questioni dalle radici ben più profonde.

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Riproduzione riservata ©
  • Maximilian CellinoRedattore

    Luogo: Milano

    Lingue parlate: italiano, inglese, tedesco

    Argomenti: Mercati finanziari, politiche monetarie, risparmio gestito, investimenti, fonti alternative di finanziamento, regolamento del sistema finanziario

    Premi: Premio State Street 2017 per il giornalista dell'anno - Categoria Innovazione

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