Cose che capitano una volta nella vita: la svolta nel cuore della moda d’autore
Pieter Mulier voleva lasciarsi alle spalle riflettori, influencer e la tirannia dei numeri. Insomma, il fashion system. Poi è arrivata la chiamata di Alaïa…
di Jo Ellison
10' di lettura
Alaïa non è il nome più noto nel mondo della moda, e non è neppure la maison più grande. Proprietà di Richemont, che nel 2007 ne ha comprato una quota significativa, ha 170 punti vendita e numeri tiepidi (nel 2017 il fatturato netto – stime Morgan Stanley – era di circa 65 milioni di euro, ma l’azienda sostiene che oggi sia cresciuto). Eppure, in termini di reputazione e capacità di influenzare i costumi, il brand non ha eguali. Lo spiega Cher Horowitz al rapinatore che in Clueless - Ragazze a Beverly Hills la minaccia con una pistola per rubarle la borsa, Azzedine Alaïa, il couturier tunisino, «era uno stilista importantissimo!». Nato nel 1935, ha lavorato per Christian Dior, Guy Laroche e Thierry Mugler prima di fondare il suo marchio nel 1981. E se anche il nome può non essere così familiare, sono indimenticabili i suoi body in maglia stretch indossati dalle top model negli anni Ottanta. Oppure l’abito Skater, un minidress attillato e svasato che molti hanno cercato di imitare, o la cintura-corsetto che strizza la vita in proporzioni da epoca edoardiana, o ancora la sua tote bag in pelle traforata, con una stampa che sembra una margherita. Per circa 40 anni Azzedine è stato nel novero di quanti contavano quando si parlava di “creatività artigianale”. La sua morte, nel novembre 2017, anche se non del tutto inaspettata, ha lasciato un enorme vuoto. Quando è arrivata la chiamata da Richemont nel 2020, Pieter Mulier stava valutando un’offerta di lavoro da parte di un’azienda di design di arredo. Lo stilista era da poco rientrato ad Anversa, la sua città, dopo avere concordato la separazione da Calvin Klein. Aveva lavorato per vent’anni nel centro nevralgico della moda. E con quel mondo, diceva, aveva chiuso. «Chiuso con all’assolutismo dei numeri», spiega ora davanti a un espresso, ordinato in un bar fuori dal quartiere generale di Alaïa, in rue de Moussy, nel Marais parigino. «Chiuso con i team ipertrofici, con l’obbligo di nutrirli continuamente con la mia energia, come se fossi una specie di clown. Non ne avevo davvero più voglia». Lo stilista, oggi 43enne, è abbastanza minuto, attraente, con il sorriso di chi la sa lunga. Indossa un cappotto color navy di Prada, nonostante sia un pomeriggio eccezionalmente umido. Mulier, davanti a quell’offerta, si è reso conto di quanto la maison Alaïa fosse un gioiello raro. Un piccolo laboratorio couture, dai clienti appassionati, fedeli, altospendenti. Perciò ha troncato ogni altra trattativa e si è concentrato solo su quella con Richemont: «Un’opportunità che capita una sola volta nella vita». L’offerta di diventare il nuovo direttore creativo è stata legata a un mandato semplice: proteggere il brand. «Non erano stabiliti obiettivi o attività di marketing. Avrei “solo” dovuto mantenere alta la reputazione del marchio e, possibilmente, aumentarne la riconoscibilità». Come precisa Myriam Serrano, ceo di Alaïa: «Pieter aveva alle spalle esperienze straordinarie, con una gamma di marchi molto diversi tra loro».
Anche se non gli sono stati fissati dei traguardi specifici, «ha capito qual era la posta in gioco». Mulier non è un discepolo di Alaïa. La sua carriera è legata al successo dello stilista belga Raf Simons, con cui aveva cominciato a lavorare come stagista, mentre studiava architettura, prima di decidere di virare sulla moda e reindirizzare tutta la sua carriera. Al fianco di Simons, Mulier ha fatto strada in fretta. Nel 2006 lo ha seguito da Jil Sander e poi, nel 2012, per quattro anni è stato il suo braccio destro da Dior. Compare nel documentario Dior and I, mentre segue la preparazione della prima sfilata couture: è il consigliere, sta tra Simons e i capi dei sarti, ruba puntualmente la scena. Il talento di comunicare è sempre stato il suo superpotere, ma non ha evitato che l’esperienza lo esaurisse. Alla fine dell’incarico come direttore creativo di Calvin Klein, dove era arrivato con Simons dopo due anni da Dior, Mulier aveva un solo desiderio: staccare. Da Alaïa, però, ha intravisto la chance di ritrovare la passione. «Per me non era un’azienda di moda. La vedevo come una casa». Quando Mulier è entrato da Alaïa, nel 2021, i suoi futuri collaboratori erano ancora sotto choc. L’edificio di rue de Moussy non era solo un centro creativo: era il palazzo in cui Azzedine viveva, lavorava, riceveva, dormiva. Tuttora la presenza dello stilista si sente in ogni angolo. Posso testimoniarlo: durante le sfilate di Parigi, di solito stavo in uno dei tre appartamenti immacolatamente spartani di quella casa, e l’atmosfera era permeata da una magia. Non sono mai stata invitata a una delle leggendarie cene in cucina di Alaïa, ma sentivo cosa succedeva mentre fumavo una sigaretta in giardino in compagnia di Wabo, il cane San Bernardo del couturier. «L’azienda era una famiglia, e quando un capofamiglia muore, il senso di perdita è enorme», racconta Mulier. E infatti Richemont ha aspettato tre anni per chiamarlo, «perché volevano dare alla maison il periodo necessario per elaborare il lutto». Mulier sapeva che la squadra «aveva fame di qualcosa di nuovo», ma è entrato con grande umiltà. «Non ero neppure nervoso. Non mi sono portato nessuno: non un assistente, né uno stylist. Ho lavorato con chi era già lì». L’atelier era minuscolo: perfino adesso le persone del team creativo si possono contare sulle dita delle mani. «All’inizio mi guardavano come se fossi matto. Poi hanno accettato il cambiamento e, a dire il vero, anch’io ho imparato tantissimo da loro». Mulier non ha voluto bloccare la maison nel passato. Pensava che gli Skater fossero diventati un po’ «da bambola e che avessero bisogno di una rinfrescata». Voleva semplificare i capi, ridefinire le linee. La soluzione è arrivata quando ha «riscoperto la bellezza delle prime collezioni, che esaltavano le linee del corpo, ed erano realizzate con infinita perizia». A quel punto ha attinto soprattutto dai primi sei anni dell’archivio per individuare la sua strada creativa, con una missione: «Trovare una nuova sensualità e lasciarsi alle spalle la silhouette che tutti conosciamo». Quando si parla di Alaïa, ci si ricorda subito delle curve femminili, definite e scultoree: fortunatamente le scelte attuali non sono andate in direzione opposta. «Penso soprattutto alla classica forma a clessidra, e a come tutto diventa più rotondo quando riduci il punto vita. Ogni volta che mi metto al lavoro, visualizzo una “bombshell”, una donna da farti girare la testa, alla proporzione tra seni, vita e fianchi. Alla fine il segreto è tutto lì». La sua prima collezione, presentata nell’estate 2021, ha puntato su quel genere di bellezza e l’ha messa al centro dell’attenzione; poi, ha reintrodotto il cappuccio. Ha scelto un glamour assoluto e impenitente, dalle silhouette sinuose come serpenti, con gonne dai volumi esagerati. Le stagioni successive hanno incluso anche i jeans, con cuciture particolari che lusingano il fondoschiena e fanno sembrare la gamba più lunga. Mulier ha anche ricreato il giaccone a doppiopetto, ristabilito il body come il capo principale e lanciato una linea di swimwear. Senza dimenticare i fondamentali: lo Skater è ancora presente, ma ora ha proporzioni rivisitate, inclusa la vita leggermente più bassa. «La gonna Skater è come la Birkin di Hermès: senza concorrenti, un po’ borghese. La proponiamo ancora perché vende sempre molto bene, ma non credo che rappresenti la contemporaneità di Alaïa». La reazione di critici, buyer e fan alle sue collezioni è stata positiva.
«Adoro quello che Pieter fa da Alaïa perché è autentico, originale», dice Alexander Fury, collaboratore di HTSI e tra i seguaci più convinti di Azzedine. «Sarebbe stato facile affidarsi all’archivio e rimaneggiarlo, invece sta creando qualcosa di coraggioso e nuovo». Concorda Alison Loehnis, presidente di Net-A-Porter, Mr Porter e The Outnet, e ceo ad interim di Yoox Net-A-Porter: «Pieter ha brillantemente preservato i codici della maison e al tempo stesso ha proiettato la collezione nel futuro. L’iconico Bodycon Dress e gli accessori, divertenti ma cool, hanno avuto un successo incredibile. E l’introduzione di nuove categorie, come quella del denim, mostra come Mulier pensi all’intero guardaroba delle clienti, non solo a vestirle per la sera o nelle occasioni speciali». L’atelier ha anche riacceso l’amore dello stilista per la moda. Adesso concentra le sue attenzioni sulla pelle: «Solo qui ho realizzato che materiale incredibile sia, soprattutto per il prêt-à-porter». È anche incantato dal design team: cosa notevole, considerando che ha sempre collaborato solo con i migliori. «Azzedine è stato un maestro straordinario. Chi ha lavorato con lui ricorda ancora come creava». Dopo avere investito parte della propria carriera per un marchio di massa come Calvin Klein, Mulier non vedeva l’ora di non dover più proporre quella che definisce “merce”. Ha detto chiaramente che non avrebbe più fatto quel tipo di streetwear che è diventato l’ossatura portante di tanti brand. Nonostante ciò, è contento di sapere che il suo Alaïa ha un appeal sportivo. Lo stesso vale per il logo: è restio a usarlo senza una buona ragione, ma per Alaïa è un elemento naturale, da sempre. «Azzedine fece una T-shirt con il logo nel 1991, quindi è qualcosa che appartiene alla storia della casa. Non penso però che sia ciò che farà evolvere la maison». La visibilità di un marchio è una faccenda molto più sottile. Cita Le Cœur, la borsa più venduta del brand. «Certo, ha un piccolo logo sul davanti. Ma ciò che la rende interessante è la forma, che vedi da lontano». Scarpe e borse sono state driver importanti: Alaïa ricava ancora il 60 per cento del suo volume d’affari dal ready-to-wear. La ballerina con gli strass, per esempio, ha fatto il tutto esaurito, un grande esempio dell’approccio organico del marketing del brand. «L’abbiamo lanciata due anni fa, ma è negli ultimi sei mesi che è andata letteralmente a ruba, ovunque. Come facciamo a sapere subito, dopo solo sei settimane, che cosa vende e che cosa no? Quali sono le potenzialità di un certo articolo? Ci vuole molto più tempo. E noi diamo ai nostri prodotti molto tempo». Mulier adorerebbe dedicarsi alla lingerie e sogna il menswear, ma per ora preferisce concentrarsi sui fondamentali, e su come rendere le linee dei capi più inclusive. «Alaïa sarà sempre Alaïa, ma c’è il potenziale per svilupparne ulteriormente l’universo», dice Serrano.
«Faremo ancora crescere il prêt-à-porter grazie alla potenza dei nostri classici». Menziona poi altri settori da sviluppare: custom jewellery, profumi, occhiali. Finora i risultati sono stati incoraggianti: secondo Serrano, l’azienda ha visto una crescita a due cifre. L’influsso di Mulier, quindi, funziona. «Quest’anno abbiamo avuto il fatturato più alto della storia della maison». Mulier non voleva essere un personaggio pubblico e, da Alaïa, poteva anche restare nell’ombra del leggendario Azzedine. Eppure, a ogni stagione, si sta trovando sempre più a proprio agio sotto i riflettori. È un’evoluzione per lui, ex numero due. A gennaio, per esempio, ha presentato la collezione estate-autunno 2023 nella sua casa di Anversa, alla Riverside Tower, un palazzo brutalista progettato da Léon Stynen e Paul De Meyer, nel quale vive da sette anni. Gli ospiti hanno guardato la sfilata assiepati intorno ai suoi mobili, seduti in cucina, alcuni addirittura appollaiati sul suo letto. «È stata la mia terapeuta a dirmi di farlo. Azzedine ha sempre mostrato le collezioni a casa sua. E c’è qualcosa di davvero bello e speciale nel farlo, nell’aprire le porte di dove vivi». È stata anche una tattica intelligente in un’epoca in cui le collezioni vengono mostrate in location sempre più esotiche. «È stato intimo, e quindi più esclusivo. Era lusso, ma in un altro modo». Per lo stilista è stata anche un’occasione per mostrare il suo orgoglio di essere belga e di rivalutare «l’importanza di Anversa, di cui ci siamo un po’ tutti dimenticati». Non si è mai considerato uno stilista di Anversa alla maniera di Dries Van Noten, Ann Demeulemeester o Martin Margiela, che hanno portato un rigore intellettuale nella moda degli anni Novanta. Ciononostante, sente forte la sua appartenenza, ha sempre vissuto in questa città e ci torna ogni settimana. «Parigi non mi piace così tanto», confessa. «Intendiamoci, come città la adoro. Ma come comunità di persone con cui condividere le ore? Non ci potrei vivere a tempo pieno.
Ho un appartamento a Parigi, ma è come una stanza di albergo. Non è casa». Quando rientra ad Anversa, dice di essere «estremamente normale, troppo normale». Va a trovare la famiglia (sua sorella, che lavora nel campo immobiliare, e suo fratello, che è un cuoco). Ascolta la radio, porta fuori il cane e cucina per gli amici. Per 18 anni il suo partner è stato Matthieu Blazy, nato a Parigi e direttore creativo di Bottega Veneta, che ha conosciuto quando lavorava per Raf Simons. I tre, che ora collaborano per maison diverse, costituiscono una cerchia ristretta e legatissima nell’ambiente della moda. Ma Mulier non intende parlare oltre della sua vita privata. Per essere uno che appartiene al cuore del fashion system, conduce due vite abbastanza diverse e separate: Anversa è dove si riposa e si rilassa, Parigi dove lavora. Che cosa pensa la sua terapeuta al riguardo? «Le piace. O meglio: non le piace che io viva a compartimenti stagni, ma capisce che ho bisogno di tempo per me stesso, lontano da tutto. Prima avevo un problema con il lavoro, lavoravo tutti i giorni, ogni weekend, ogni domenica. Dovevo farlo, e mi piaceva. Ma era troppo. Rincasare ad Anversa mi dà un motivo per lasciarmi tutto alle spalle».
Se fossi la sua analista, direi che negli ultimi anni ha intrapreso un viaggio dentro se stesso. Ha scoperto l’indipendenza, la libertà creativa e una sua voce, ben distinta dalle altre. Alaïa gli ha permesso di concentrarsi sul lato creativo: non deve più sostenere il morale dei suoi collaboratori, non deve corteggiare le influencer e, ad eccezione di Rihanna al Super Bowl 2023 (apparsa sul palco in un voluminoso piumino rosso Alaïa dal lungo strascico), non va in cerca di clienti famosi. È contento di essere esclusivo, per pochi. Vuole che Alaïa sia un brand che magari si scopre da soli. «Io non voglio parlarne con nessuno», dice alludendo alla costante preoccupazione dell’industria della moda di interagire con la più vasta clientela possibile. Mulier ha sensazioni contrastanti sul futuro del settore del fashion, nonostante sia per natura un ottimista. L’ultima collezione che lo ha davvero entusiasmato è stata quella di Loewe autunno-inverno 2023, per la sua «freschezza e per come mi ha consentito di guardare i vestiti. So che sembrerò di un’altra epoca, ma in passato quando ci ritrovavamo tra addetti del settore, parlavamo dell’estetica dei marchi. Ora vado ad almeno due o tre cene a settimana dove sto seduto e sento discutere di soldi. La frase tipica attorno a quei tavoli è: stiamo vendendo bene». Ok, ma alla fine, chi se ne importa? Bisogna tenere presente, invece, un altro punto: la moda sta attraversando una fase strana. Il pubblico è talmente allargato che volendo parlare a tutti, alla fine, non hai più la tua voce». Da Alaïa, Mulier ha trovato invece un santuario, il rifugio perfetto dove concentrarsi sugli abiti. Può plasmare, riplasmare e perfezionare la sua bombshell.
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