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Così il manager-coach può trattenere il talento in azienda

Alcuni consigli pratici per contrastare gli effetti della Great Resignation e vincere la nuova guerra dei talenti

di Irene Morrione *

(monamis - Fotolia)

4' di lettura

I leader nelle organizzazioni si trovano oggi ad affrontare una nuova “guerra dei talenti”, felice espressione coniata da McKinsey negli anni 70 e tornata in auge nel post pandemia. Quello della “Great Resignation”, infatti, è un tema molto caldo. In Italia, nei primi nove mesi del 2022, oltre 1,6 milioni lavoratori si sono dimessi: il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Nel solo terzo trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state pari a 562mila, in crescita del 6,6% sul terzo trimestre 2021.

Trattenere i talenti in azienda è una sfida adattiva, nella quale le soluzioni tecniche, come ad esempio offrire uno stipendio più alto o benefit più allettanti, si rivelano spesso insufficienti. Le sfide adattive, infatti, richiedono un nuovo modo di “essere e di pensare” per adattarsi al contesto che cambia. È qui che una leadership orientata al coaching diventa arma vincente nella nuova guerra dei talenti.

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Le cause della fuga di massa

L’allontanamento e la disaffezione da un contesto organizzativo oggi spesso si verificano come conseguenza di una cultura manageriale di stampo direttivo, molto concentrata sul controllo delle performance e meno attenta a motivare le persone. L’improvviso senso di precarietà che ci ha investito come una sorta di trauma collettivo e il progressivo introdursi di forme di lavoro agile, hanno ampliato nei lavoratori la consapevolezza rispetto ai propri reali bisogni e in molti si è acceso il desiderio di un lavoro che fosse realmente connesso con il proprio purpose individuale e che facilitasse l’espressione del sé autentico.

Quei contesti organizzativi dove le persone si sentono dei numeri al servizio del business vengono, così oggi, più facilmente abbandonati da chi è alla ricerca, non solo di condizioni migliori, ma anche di contesti in cui la classe manageriale sia in grado di valorizzare le unicità e di adattarsi rapidamente ai cambiamenti del nuovo mercato del lavoro emergente. Le aziende sono dunque sempre più consapevoli dell'importanza di avere al proprio interno manager in grado di creare legami tra persona e organizzazione.

I dati raccolti nell'indagine ICF Global Coaching Studies raccontano infatti che il numero di coach è salito del 33% e il numero di manager che utilizzano le cosiddette coaching skills è salito del 46% negli ultimi anni

Le 3 Rivoluzioni di pensiero del leader - coach

Quando Il coaching entra nel DNA della cultura aziendale non è più solo un processo utile allo sviluppo delle persone, ma diventa una nuova grammatica della comunicazione, per certi versi rivoluzionaria.

1. La prima rivoluzione riguarda il passare dalla logica del controllo alla logica della partnership. Quando il manager indossa il cappello da coach, infatti, si pone in maniera paritaria rispetto alle sue persone, con l’obiettivo non di dare direttive e controllare che le cose vengano fatte ma in una logica di interdipendenza. Il leader agisce da partner, si mette alla pari degli altri in una relazione di coaching, dunque assertiva e di fiducia, dove ognuno ha l'opportunità ma anche il dovere di contribuire, facilitando così l’emergere delle intuizioni e delle soluzioni in una logica bottom up.

2. La seconda rivoluzione riguarda un radicale cambio di focus: dal cercare di colmare i gap alla valorizzazione delle forze. Questo significa per il leader - coach essere un “cercatore di bellezza” nell’altro, saper valorizzare l’unicità, l’eccellenza il talento specifico del singolo senza pretendere di “aggiustare” o di “migliorare” le proprie persone in quelle aree dove mancano le competenze e soprattutto le attitudini. Il leader diventa dunque un facilitatore di team in grado di riconoscere i singoli talenti e mettere insieme persone che abbiano forze complementari, creando così gruppi di lavoro dove ognuno possa esprimere al massimo il proprio potenziale.

3. La terza rivoluzione è passare da una logica di pianificazione al saper stare con l’emergente. Per decenni nelle organizzazioni è stato importante che i manager sapessero programmare e poi monitorare le attività in base al programma stabilito. Oggi in un mondo caratterizzato da mercati sempre più fluidi e globali e dall’incessante evoluzione tecnologica, guidare un’organizzazione significa soprattutto anticipare con la propria intuizione i continui cambiamenti e riuscire a portare a bordo le persone nelle costanti trasformazioni.

È qui che competenze di coaching quali l’ascolto dei segnali deboli, la presenza ovvero capacità di “fare senso” nel qui ed ora, il saper porre e porsi le giuste domande quando non si hanno tutte le risposte, diventano chiave di volta per abitare la complessità contemporanea.

Lasciare che la ghianda diventi una quercia

James Hillman, psicologo analista junghiano, sosteneva che ognuno di noi possiede un daimon, un talento unico e innato che ciascuno è chiamato a realizzare nelle propria vita. Hillman ha utilizzato per descrivere questo concetto la metafora della ghianda che è destinata a diventare una quercia e non un altro albero. Il leader oggi deve essere sempre più un facilitatore di scoperta dei talenti individuali (il daimon) affinché siano agiti al servizio della mission organizzativa, fornendo a quella ghianda tutto il nutrimento necessario per diventare una florida e sana quercia.

* Ceo Into the Change

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