Così il vino made in Italy ha conquistato gli Usa. Grazie a un giornalista
L’Italia alla fine degli anni ’80 esportava negli Usa un milione di ettolitri di vino, contro i 3 milioni di oggi. Le vendite all’estero di etichette italiane si sono spostate dal Nord Europa (Germania in primis) al Nord America. Trent’anni fa il 56% dell’export made in Italy era fatto da vino sfuso e indifferenziato, una percentuale che oggi è scesa al 5%
di Giorgio dell'Orefice
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L’Italia alla fine degli anni ’80 esportava negli Usa un milione di ettolitri di vino, contro i 3 milioni di oggi in un processo che ha visto l’asse delle vendite all’estero di etichette italiane spostarsi dal Nord Europa (Germania in primis) al Nord America. Trent’anni fa il 56% dell’export made in Italy era fatto da vino sfuso e indifferenziato, una percentuale che oggi è scesa al 5%.
Una sostituzione che è andata di pari passo con la valorizzazione del vino italiano passato sul mercato americano da poco più di un euro al litro ai 5,84 euro di oggi. Un valore ancora lontano dai 9,67 euro della Francia anche se il gap si è molto ridotto. «Ma soprattutto - ha sottolineato il responsabile di Wine Monitor di Nomisma, Denis Pantini - l’Italia è stato negli ultimi 30 anni l’unico tra i top exporter mondiali di vino che ha visto costantemente crescere la propria quota di mercato negli Stati Uniti».
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I brillanti risultati dell’export enoico nazionale che ne hanno contrassegnato il vero e proprio rinascimento degli ultimi 30 anni sono stati ripercorsi a Firenze, a Palazzo Antinori da Nomisma nell’ambito di una giornata che l’Istituto Grandi Marchi (consorzio che associa 19 tra le principali griffe del vino italiano da Antinori a Incisa della Rocchetta, da Masi a Mastroberardino, da Ca’ del Bosco a Carpené Malvolti solo per citarne alcune) ha voluto dedicare al giornalista Usa, Burton Anderson ritenuto dai produttori italiani colui che con i propri libri dedicati al vino italiano ha spalancato ai produttori del Belpaese le porte del mercato Usa.
«Fino all’arrivo sulla scena di Burton - ha ricordato il presidente dell’Istituto Grandi Marchi, Piero Mastroberardino - nessuno aveva mai parlato in quei termini dei vini italiani, con modalità che davvero facessero conoscere ai consumatori cosa c’era dietro la bottiglia e sottolineando ai noi produttori anche alcuni dei nostri difetti».
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Anderson, ha aggiunto il presidente di Masi Agricola, Sandro Boscaini, «ha sdoganato il vino italiano parlandone in una forma inedita e raccontando ai mercati internazionali il fermento che attraversava il nostro mondo in quegli anni, rendendo nota ai consumatori la voglia di qualità e di autenticità delle nostre cantine».
Secondo Piero Antinori «Burton ha saputo raccontare la diversità e le potenzialità del vino italiano, illustrando quello che è stato il nostro periodo d’oro, una fase virtuosa che ci ha portato a risultati che nessuno di noi avrebbe mai potuto ipotizzare. Un periodo magico che rappresenta anche l’unico racconto che possiamo tramandare alle generazioni future noi nati dopo la guerra mondiale e diventati non più giovani alla fine negli anni ’60 quando l’Europa fu attraversata dalle proteste studentesche».
Un altro tra i più celebri produttori italiani, Angelo Gaja, ricorda come «negli anni ’70 nel corso delle mie prime visite negli Usa facevo molta fatica a far apprezzare i miei vini. I libri di Anderson hanno invece spiegato agli americani che il vino italiano non era solo quello di basso profilo che all’epoca invadeva gli Stati Uniti ma ha dato fiducia a tanti piccoli produttori di qualità. Da lì è cominciata la nostra corsa».
«Il primo vino italiano che ho assaggiato tanti anni fa a Minneapolis, nel Minnesota - ha ricordato Burton Anderson - era un Chianti in fiasco. E a me piacque molto quel vino, un prodotto di grande versatilità capace al tempo stesso di freschezza ma anche di un medio invecchiamento. Per me il fiasco di Chianti era l’emblema di un prodotto che era percepito come basic ma che invece aveva un grande potenziale da esprimere come tanti altri vini italiani. Tanto che pure dopo tanti anni che ho trascorso in Italia mi risulta ancora incomprensibile perché nella vostra lingua il “fiasco” abbia ancora un’accezione negativa».
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