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Costa: «Sul climate change non possiamo deludere i giovani»

Intervista al ministro dell’Ambiente alla Conferenza Onu

di Gianluca Di Donfrancesco

Il ministro per l’ambiente Sergio Costa

4' di lettura

Gli slogan e i cori della marea colorata, che venerdì 20 ha sfilato in tutto il mondo contro il climate change, riecheggiano nei corridoi del quartier generale delle Nazioni Unite. «Quei giovani vanno ringraziati, perché hanno proposto un modo innovativo di sollecitare l’attenzione dei grandi della Terra. Non possiamo deluderli». Il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, a New York per il Summit indetto dall’Onu, si concede una pausa tra i panel ai quali è intervenuto.

«Le politiche per il contrasto al cambiamento climatico - aggiunge, seduto a gambe incrociate su un divanetto, appena fuori da una sala conferenze - sono politiche intergenerazionali e quindi: ascoltiamo i giovani, ma soprattutto coinvolgiamoli nelle decisioni. È per questa ragione che l’Italia ospiterà nell’ottobre del 2020 la prima Cop per i giovani mai fatta nella storia delle Conferenze delle parti» della Convenzione sui cambiamenti climatici.

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L’organizzazione della Cop, insieme al Regno Unito, metterà l’Italia sotto i riflettori: potrà aiutare a prendere decisioni difficili?
Secondo me sì. È una Cop dirimente, dove si discuterà per gli anni compresi tra il 2020 e il 2030 l’elevazione dell’ambizione. Di tutti i Paesi al mondo. Che vuol dire assumere impegni per cambiare il paradigma produttivo e contrastare insieme i cambiamenti climatici. Significa anche arrivare con una progettazione nazionale e autorevole, che vada nella direzione della tutela dell’ambiente, che è quella annunciata dal premier Conte proprio nel giorno in cui si è votata la fiducia al nuovo Governo.

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I ragazzi, ma anche il segretario generale delle Nazioni Unite, chiedono più proposte concrete e meno promesse. Secondo lei arriveranno da questo vertice?
Credo di sì. Già è un grande successo aver avuto una giornata dedicata ai giovani, che hanno potuto parlare con i grandi della Terra ed essere ascoltati. C’è poi un secondo elemento. Seppur lamentiamo l’assenza degli Stati Uniti, altri Paesi, Italia compresa, stanno prendendo impegni più ambiziosi, per dimostrare al mondo che quello sforzo va fatto insieme. Lasciando sempre la porta aperta agli Stati Uniti: è insieme che si vincono queste battaglie.

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I cambiamenti climatici alimentano le migrazioni. Contrastare il surriscaldamento globale può essere un modo per controllarle ?
L’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) non solo ci dice che il cambiamento climatico è ormai in atto, ma ci dice anche che ci sono delle zone al mondo particolarmente aggredite. Mi riferisco ad esempio all’Africa e soprattutto ai 14 Paesi della fascia del Sahel, colpiti da processi di desertificazione estremi. Le persone che provengono da quel territorio rappresentano circa il 70% delle migrazioni da mutamenti climatici. Sono i disperati della Terra. L’intervento lì deve essere vigoroso. Nella fascia del Sahel, l’Italia partecipa finanziariamente e con propri tecnici alla costruzione della così detta Muraglia verde, una foresta che punta a strappare alla desertificazione questo territorio. Con le Nazioni Unite, abbiamo finanziato una serie di progetti per trasformare 20mila ettari di terreno da deserto a zona di coltivazione, seppure estensiva, dando a 300mila persone la possibilità di vivere nella loro terra, secondo le proprie tradizioni. Tutto questo con fonti rinnovabili e con tecnologia italiana. Sono grandi soddisfazioni.

Fermare il surriscaldamento globale e al tempo stesso sostenere crescita e occupazione. È la scommessa della Commissione Ue e della Germania. È possibile?
Credo di sì. La questione non è solo metterci fondi, anche molto consistenti, ma crederci. Questo per me significa pensare finalmente che il paradigma produttivo può cambiare, ma senza lasciare indietro nessuno. Ciò non vuol dire un cambiamento nel giro di un giorno, vuol dire affrontare in una visione politica tanti piccoli step. Vuol dire cominciare ad abbandonare le materie prime fossili, per arrivare alle fonti rinnovabili, lentamente ma costantemente. Aiutando quei soggetti che affrontano questo cambiamento, in modo che non ne soffrano lo stress. Studi recenti dicono che per ogni posto di lavoro nella produzione dei combustibili fossili, se ne possono ottenere tra tre e cinque che producono fonti rinnovabili. Se addirittura si guadagnano posti di lavoro, si salvaguarda l’ambiente e il mondo è pronto a intervenire sia nel privato che nel pubblico per superare il gap della transizione, non vedo perché non si debba fare. Quindi servono fondi e visione politica.

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In Europa però c’è un gruppo di Paesi che frena. Come li si convince?
Sono sostanzialmente i Paesi del blocco di Visegrad, con un’economia nata sul fossile. Chiedono aiuto e tempo. Non è una volontà a non fare, è una richiesta di aiuto e l’Europa deve tenerla presente, altrimenti si crea un continente a più velocità e non saremmo corretti dal punto di vista ambientale, ma nemmeno autorevoli rispetto al resto del mondo.

Sul decreto-clima lei va avanti.
Il decreto clima nasce da un’idea: osiamo di più. Se abbiamo posto l’ambiente al centro dell’azione del Governo, adesso è il momento di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Il decreto clima è una bozza, deve essere sistemato dal punto di vista tecnico, non solo per le così dette coperture, una questione non tecnica ma tecnicistica, ma semplicemente perché nessuno salva il clima da solo: è un insieme di ministri e ministeri che devono lavorarci. Chiuderemo questa definizione nelle prossime ore e giorni. Il provvedimento va approvato al più presto. Ritengo che lo strumento del decreto legge vada esplorato per questo tipo di norma, perché noi abbiamo un’emergenza climatica. Che ci impone di fare presto.

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