Costellazione di musica estranea al sistema
Quella dell'etichetta discografica canadese Constellation è una storia di passione e libertà creativa orgogliosamente lontana dalle logiche commerciali e di consumo imperanti. Intervista al fondatore e una guida agli album da ascoltare
di Michele Casella
6' di lettura
È ancora possibile cambiare il mondo con la musica? E soprattutto, in questo principio di Anni 20, con un sistema di distribuzione sonoro che tende a sballottolare l'ascoltatore attraverso le infinite direttrici dello streaming, ha ancora senso parlare di etica anticapitalistica? Per Ian Ilavsky non ci sono dubbi, lui che il suo angolo di mondo è riuscito davvero a cambiarlo, costituendo dal nulla l’etichetta discografica Constellation nella metropoli di Montréal. Oggi, dopo 23 anni di attività e una credibilità internazionale costruita a piccoli passi, la label conta su un catalogo di circa 150 pubblicazioni, ciascuna delle quali realizzata sulla base di accordi contrari alla mercificazione e allo sfruttamento delle opere musicali. E proprio le ultime uscite riescono a ricomporre il quadro stilistico dell'etichetta grazie al ritorno di alcuni dei protagonisti della prima ora, come Fly Pan Am, Efrim Menuck e Sandro Perri. «I nostri “principi fondamentali” si sono sempre basati sul cercare e supportare i suoni avventurosi prodotti da musicisti fai-da-te, da coloro che sono politicamente e socio-economicamente impegnati nel fare dischi con un modello “lento”», racconta a IL Ilavsky, boss della Constellation assieme a Don Wilkie dal 1997.
Che cosa vi guida nel lavoro di selezione e produzione delle opere discografiche che pubblicate?
«Intendiamo valorizzare la produzione su piccola scala, l'attenzione ai dettagli e l'intimità dell'oggetto. Siamo sempre stati attratti dalla musica che si situa nelle fessure tra i generi, modellata dallo sputo e dalla grinta del punk, ma che trasporta quello spirito in altre forme, abbracciando diverse influenze musicali come il minimalismo, la neo-classica, il prog, la drone, il jazz, il dub, il folk, il noise, l'elettronica. Questo è ciò che per noi ha sempre tenuto in vita il punk, nell'attitudine e nello spirito artistico, piuttosto che come genere strettamente definito con formule rigide e regole estetiche».
Come nasce la storia dell'etichetta? In che modo una realtà ultra indipendente canadese è riuscita a inserirsi nel tessuto dell'industria musicale degli Anni 90?
«Io e Don Wilkie ci siamo incontrati alla fine del 1994. Lui viveva ancora a Toronto mentre io lavoravo in una panetteria a Montréal, suonavo nei Sofa e in alcune altre band. Abbiamo legato grazie all'amore condiviso per una vasta gamma di generi musicali e per la visione politica ed economica del punk e dell'indie rock, che aveva profondamente plasmato la nostra visione del mondo da adolescenti. Quando ci siamo conosciuti non eravamo più ragazzi, ma a cavallo fra i 20 e i 30 anni eravamo diventati ancora più arrabbiati e più radicali. Volevamo iniziare qualcosa che potesse far esplodere il fuoco degli ideali punk, dell'indie e del modello “do it yourself”. Questo perché eravamo profondamente delusi per la cooptazione dell'economia musicale alternativa negli Anni 90».
La Constellation, però, parte innanzi tutto come progetto di condivisione di spazi, in un periodo in cui Montréal non concedeva molto a chi si impegnava nella musica…
«Sì, inizialmente abbiamo inteso la Constellation come un piccolo spazio amichevole e “legale” per l'esibizione degli artisti. Avevamo deciso di documentare gli spettacoli dal vivo con un registratore a 8 tracce, così da pubblicare i nostri preferiti su cassetta per venderli nel nostro spazio e attraverso alcuni negozi di dischi locali. A metà degli Anni 90, quasi tutti i club di Montréal funzionavano con la forma del “pay-to-play” (in base alla quale la band doveva pagare per l'uso della sala, ndr), ma nel frattempo nei loft e nei magazzini “illegali” stavano accadendo cose molto interessanti, in situazioni precarie, discontinue e sempre a rischio di arresto. Suppongo che a quel tempo fossimo un po’ naive, ma non stavamo cercando sussidi o supporto, volevamo solo un contratto di locazione ragionevole e un paio di permessi!».
In quel momento diventa centrale l’incontro con i
«Esatto, eravamo diventati intimi amici con i membri dei GY!BE, alcuni dei quali vivevano in un enorme magazzino chiamato Hotel2Tango, uno dei luoghi in cui si tenevano spettacoli “illegali” e dove spesso veniva suonato quel tipo di musica vicina ai nostri cuori, influenzata dal punk, ma più sperimentale. La loro politica di opposizione, l'estetica avventurosa e l'energia fai-da-te rispecchiavano la nostra. All'inizio del 1997, sia GY!BE che Sofa erano riusciti a registrare degli album completi con poche centinaia di dollari: i Godspeed avevano noleggiato un mucchio di microfoni e un registratore a 16 tracce per un weekend, con i quali abbiamo allestito l'Hotel2Tango. È così che è stato registrato F#A#∞. I Sofa, invece, sono entrati in uno studio professionale durante il turno di notte grazie a un vecchio amico del batterista, che ha anche fatto gratuitamente da ingegnere del suono per le sessioni. Sia Gray che F#A#∞ sono stati praticamente registrati “in presa diretta”, con pochissimi soldi e in brevissimo tempo… Come quasi tutti i dischi della Costellazione fino a oggi!».
Come nacque l'etichetta discografica e come realizzaste le prime uscite?
«Don e io mantenemmo il nostro lavoro quotidiano, ma iniziammo a vivere nel nostro loft space, dove mettemmo su una serie di concerti sperimentali dal nome “Musique Fragile”. Quindi prendemmo quel po' di soldi che avevamo risparmiato e decidemmo di avviare l'etichetta, così da realizzare questi due album senza sapere nulla sulla produzione o la distribuzione. Volevamo creare oggetti fisici belli e suggestivi, ma ovviamente, non avendo soldi, l'unico modo era fare quasi tutto da noi. Così abbiamo realizzato ogni singola copia a mano, Gray in una confezione CD con una sottile cornice in legno, dove ogni piccolo bastoncino e ogni pezzo di cartone sono stati tagliati e incollati insieme manualmente. F#A#∞ su LP era racchiuso in una confezione anch'essa tagliata e piegata a mano, ognuna con una stampa fotografica sviluppata in camera oscura e incollata alla copertina. All'interno avevamo inserito un penny che era stato schiacciato dai treni che passavano sui binari della ferrovia accanto all'Hotel2Tango, e ancora oggi schiacciamo i penny in quel modo, sulle stesse rotaie».
Come avvenne il passaggio da label di carattere locale a realtà internazionale?
«Non avevamo davvero idea di dove o come avremmo venduto questi dischi, se non nei negozi di dischi locali e ai concerti. Ma il passaparola cominciò lentamente a diffondersi, specialmente dopo che i Godspeed fecero un tour autoprodotto negli Stati Uniti nell'autunno 1997. Fecero anche tappa a Chicago, che all'epoca era la mecca dell'indie rock e del post-rock. Lì erano in cartellone anche gli Storm & Stress (la band di Ian Williams precedente ai Battles, vedi la nostra intervista qui, ndr), quindi c'erano un sacco di musicisti e gente che gravitava in quella scena. Erano presenti i tipi dell'etichetta Kranky, che avrebbe finito per pubblicare i primi dischi dei Gosdpeed su CD mentre la Constellation continuava a realizzarli in vinile. Ci sono voluti circa due anni per raggiungere la distribuzione internazionale, durante i quali abbiamo anche pubblicato piccole stampe degli album di debutto di Do Make Say Think, Exhaust e Fly Pan Am, insieme a un EP dei Sackville (che avevano già pubblicato due album interi su altre etichette) e a un nuovo EP dei Godspeed. La Constellation ebbe poi spazio sulla rivista britannica The Wire, i GY!BE partirono per un tour in Europa nel 1998, quando quasi nessuno li conosceva, e ovviamente i GY!BE e la Constellation furono associati al “post-rock”. Per fortuna, grazie anche a un nostro testo che divenne un manifesto dell'epoca, fummo identificati con una politica punk-rock che respingeva il “post-rock” come concetto de-politicizzato e troppo estetizzato. Si trattava di una critica socio-economica alla musica “indie”, che ormai era stata vergognosamente trasformata in termini di branding e marketing».
Come avete trovate equilibrio fra la radicalità delle vostre scelte e le necessità di un'impresa creativa?
«Dal 1999 l'etichetta stava a suo modo diventando una struttura a tempo pieno per “fare affari” nel settore, dunque i principi di anti-mercificazione e anti-sfruttamento sono divenuti sempre più importanti: lavoriamo da sempre con accordi verbali in buona fede, senza quadri legali e contrattuali e senza far nostra la proprietà delle registrazioni degli artisti; rifiutiamo la copertura dei media mainstream e manteniamo una politica contraria all'uso pubblicitario per la musica pubblicata sull'etichetta. Non paghiamo per ottenere un posizionamento preferenziale nei negozi di catena e ci assicuriamo che questi non ottengano migliori offerte rispetto ai negozi indipendenti».
Nel corso di questi anni ritenete di aver mantenuto una linea editoriale uniforme?
«In termini di “direzione musicale”, onestamente non riteniamo di aver mai cambiato rotta, ma con 150 album speriamo ovviamente che il catalogo Constellation si sia espanso in diverse direzioni! La nostra linea è dettata dall'aver deciso consapevolmente di non reinventarci come società di “gestione artistica”, di non preoccuparci che negli album ci siano dei “singoli” adatti a un mondo guidato dalla velocità di Internet. Siamo rimasti un'etichetta “old school”, che pubblica tanti dischi della massima qualità possibile. Non prestiamo particolare attenzione alle tendenze e non ci interessa il potenziale commerciale. Ma soprattutto, amiamo moltissimo gli album su lunga distanza che richiedono ascolti lunghi, attenti e ripetuti, che richiedono tempo per rivelarsi, che risultano evocativi e che donano all'ascoltatore un'ampia possibilità di significati o viaggi. Il che non è per nulla scontato, oggi».
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