Covid-19, la zona grigia del mercato dei rapid test
Il sottobosco variegato delle società che rivendono i cosiddetti test rapidi ha approfittato del caos emergenziale. Così vengono venduti i prodotti nascondendone l'origine e spacciandoli per europei
di Cecilia Anesi* e Lorenzo Bagnoli*
9' di lettura
Pubblichiamo un’estratto dell’inchiesta sulla zona grigia dei rapid test anti Covid-19 pubblicata dal consorzio di giornalismo investigativo IrpiMedia
Per quattro giorni interi Rodzer Zekirovski ha avuto tutti i sintomi da Covid19: febbre alta, dolore muscolare, tosse secca. Era marzo nel nord della Macedonia e il quarantaquattrenne Zekirovski era preoccupato. Ma per quanto abbia insistito, non è riuscito a farsi accettare per un tampone in un ospedale pubblico.
Ha allora deciso di perseguire quella che gli sembrava una valida alternativa: andare in una clinica privata e sottoporsi ad un rapid-test sierologico con pungidito. Un esame banalissimo: gli operatori sanitari dovevano solo prelevare, attraverso una puntura, una gocciolina del suo sangue e appoggiarla sulla cassettina di plastica che rileva una reazione anticorpale all'infezione da coronavirus e in pochi minuti avrebbe avuto una risposta, simile a quella di un test di gravidanza: sì o no. Costo dell'operazione: 20 dollari. E con la promessa di affidabilità certa poiché il test era prodotto in Olanda. O almeno questo era ciò a cui aveva creduto il signor Zekirovski quando, risposta negativa alla mano, è tornato a casa sollevato.
Tre giorni dopo l'uomo è deceduto. L'autopsia ha confermato che Zekirovski era positivo alla SARS-CoV-2, il virus che causa la malattia Covid19. Convinta che non avesse contratto il virus, l'intera famiglia Zekirovski non ha preso precauzioni quando l'uomo è tornato a casa sventolando il suo certificato. «Ci siamo abbracciati e baciati tra noi due e con i bambini - racconta la moglie Gjultena - come potevamo immaginare?».
Esiti approssimativi
Non è possibile stabilire se una diagnosi corretta avrebbe salvato la vita di Zekirovski, ma senza dubbio la sua morte è la dimostrazione che i test rapidi detti “point of care” non sono sufficienti per una diagnosi certa del Covid19. Al contrario di quanto è stato detto alla famiglia dell'uomo e al contrario di quanto pensa chi vede in essi una soluzione miracolosa.
A differenza dei tamponi faringei analizzati in laboratorio che cercano le proteine del virus - un processo che può richiedere giorni - i test rapidi cercano gli anticorpi rilasciati da un organismo nella lotta al virus. E i risultati sono leggibili in una decina di minuti.
Test del genere, pungidito, esistono già di tutti i tipi: per HIV, per scoprire la presenza di alcool o droghe nel sangue, per il colesterolo e così via. Ma il SARS-CoV-2 è un virus nuovo e ancora poco compreso, per cui le speranze iniziali che si riponevano a livello internazionale su questi test rapidi sierologici Covid19 sono state tradite dall'evidenza che molti di questi sono meno accurati di quanto dichiarato dalle aziende produttrici.
La stessa Organizzazione mondiale della sanità il 26 marzo, un po' tardi rispetto alla commercializzazione dei rapid test, ha pubblicato una lista di test e rispettive aziende produttrici dicendo però «non ne incoraggiamo l'uso». In un aggiornamento del 4 maggio, compaiono anche nomi di spicco come Abbott, l'azienda americana che si è appena aggiudicata l'appalto italiano per 150mila test sierologici tradizionali con prelievo endovenoso (un sistema più complesso del pungidito).
Eppure i singoli Paesi, soprattutto quando annunciano la “fase 2”, non possono fare affidamento solo su questo metodo per lo screening della popolazione. Il tampone costa molto, i traccianti chimici sono merce sempre più contesa e i laboratori, per analizzarne i campioni, rischierebbero di ingolfarsi in tutto il mondo. La posizione pilatesca dell'Oms di fronte ai test rapidi ha così di fatto aperto a un far west in cui aziende private più e meno accreditate hanno cercato di vendere dei prodotti la cui affidabilità non è stata mai validata davvero. Se questa situazione era accettabile a febbraio, oggi ci dovrebbe essere un'analisi seria di quali siano i test rapidi affidabili e quali no. Circostanza che finora non si è verificata.
Il far west della diagnostica
Non c'è nulla di certo intorno alla diagnostica del Covid: gli stessi tamponi a volte hanno dato risultati sballati. Ma il rischio maggiore sembra rappresentato proprio dai test rapidi “pungidito” perché studi scientifici indipendenti hanno iniziato a smontare l'affidabilità certificata dai produttori.
«Se vogliamo determinare se una persona è infetta, allora un falso positivo non è un grande problema perché l'unica conseguenza è che la persona viene messa in quarantena per niente», ha spiegato a IrpiMedia Marien de Jonge, un ricercatore che si sta occupando di COVID-19 Radboud University Medical Center in Olanda. «Ma un falso negativo è un disastro. Perché, evitando di isolarsi, può mettere inconsapevolmente in pericolo le altre persone».
Resta però un fatto: i test rapidi, se incrociati all'uso del tampone, potrebbero essere la chiave per fare lo screening della popolazione che tutti stanno aspettando. «Testare, tracciare e trattare» è il cavallo di battaglia dell'epidemiologo Alessandro Vespignani. Secondo lo scienziato - con un passato da fisico e informatico, competenze che oggi unisce all'epidemiologia per realizzare complessi sistemi di analisi e predizione delle epidemie - è fondamentale fare tamponi e test (purché omologati) a tappeto, con «determinazione ossessiva e spietata» ha spiegato in un'intervista a The Post Internazionale.
Invece, al momento, regna solo il caos.
IrpiMedia ha partecipato ad un'inchiesta transnazionale coordinata da OCCRP su sei Paesi nel mondo, che fa luce su una serie di problematiche legate alla commercializzazione e all'uso di questi test a livello internazionale.
È ormai chiaro che il paziente macedone sia stato ingannato. Non solo il test non era affidabile al 100%, ma non era nemmeno giusto indurre il signor Zekirovski a credere di aver fatto un test diagnostico di alta qualità solo perché “olandese”. Il test a cui è stato sottoposto Zekirovski, il Biozek, è prodotto dall'azienda olandese Inzek International Trading, stando alle dichiarazioni ufficiali. In realtà, le ricerche di OCCRP svelano come il kit Biozek sia prodotto della Hangzhou Alltest Biotech Co. Ltd, una grossa azienda cinese sul mercato da anni. Non solo Inzek, ma una moltitudine di fabbricanti europei e americani lo hanno commercializzato e reimpacchettato, cambiandogli il nome, per farlo sembrare di fabbricazione occidentale. Molti hanno fatto sparire del tutto dai loro siti e dai kit in commercio il nome del produttore originario, Alltest.
Questa pratica si muove sul filo della legalità. Un prodotto, secondo la normativa europea, può dirsi “Made in Europe” se quella che viene definita “l'ultima lavorazione” avviene nello spazio Schengen. Questa “lavorazione” può anche essere solo l'assemblaggio con un nuovo involucro, che di fatto ribattezza il prodotto. L'origine, però, deve sempre essere rintracciabile dagli organismi europei che certificano le aziende e dalle agenzie nazionali che approvano la commercializzazione dei prodotti. Questa pratica avviene in Italia con una autocertificazione mandata al Ministero della Salute, che poi registra aziende manifatturiere e mandatarie di un singolo dispositivo medico.
E così, oltre all'originale marchio Alltest, i test della Hangzhou Alltest Biotech Co. Ltd sono stati venduti sotto altri nomi a istituzioni governative, municipalità, ASL, ospedali e cliniche private in mezzo mondo, distribuiti in paesi tra cui Spagna, Italia, Inghilterra, Indonesia, Russia, Arabia Saudita e pure il Vaticano.
Il kit pungidito Covid19 di Alltest è affidabile?
Il test di validazione che presenta Alltest per accreditarsi sul mercato afferma una precisione dei test del 92.9% per gli IgM (quindi per gli anticorpi che l'organismo produce a infezione in corso) e un 98.6% per gli anticorpi di lunga memoria, gli IgG.
Studi indipendenti sul prodotto però riportano un'affidabilità molto più bassa. Uno studio dell'Ospedale Universitario Principe di Asturia ha rilevato falsi negativi in più della metà dei casi. Hanno però anche scoperto che il test è sempre più sensibile col passare del tempo: se usato su pazienti oltre i 14 giorni dopo la comparsa dei primi sintomi, allora il test è in grado di trovare gli anticorpi e i falsi negativi appaiono solo un quarto delle volte.
«L'accuratezza (dettata dalle due S, specificità e sensibilità) dichiarata da Alltest, ovvero 92.6% e 98.6%, è spazzatura», spiega dal “Center for Global Health Science and Security” della Georgetown University la ricercatrice e professoressa Claire Standley.
Sullo studio rilasciato da Alltest mancano molte informazioni. «Non hanno specificato lo status clinico dei pazienti, non sappiamo – precisa Standley - se erano ricoverati, se erano pescati a caso dalla comunità, non sappiamo se avevano sintomi lievi, non sappiamo come siano stati scelti. E in più – conclude - non c'è alcuna specifica sugli standard etici utilizzati durante lo studi. Tutti aspetti abbastanza fondamentali».
Standley sostiene che gli esperimenti clinici dei rapid test dovrebbero essere comparati con quelli più accurati fatti in laboratorio (per esempio il tampone faringeo), ma nota come sullo studio rilasciato da Alltest tutto questo aspetto manchi del tutto.
Anche con un'affidabilità più bassa di quella dichiarata, i kit di Alltest potrebbero essere un utile mezzo di screening usato in tandem al tampone, sostiene Standley. D'altronde è proprio questa la corretta somministrazione del test indicata sul sito web di Alltest. Come precisato dopo la cancellazione dell'ordine da parte del governo inglese. Così oggi si legge sul sito che il test «non è adeguato per una prima diagnosi dell'infezione» e dovrebbe essere utilizzato come «metodo supplementare» ai test di laboratorio. L'azienda si è rifiutata di rispondere ad altre richieste di commento dei giornalisti di OCCRP.
Le lacune attorno al prodotto Alltest hanno spinto ai primi di aprile diversi governi, come quello spagnolo oltre al già menzionato governo inglese, a fermare gli ordini. Un distributore italiano sentito da IrpiMedia sostiene che da quel momento i kit siano bloccati in Cina, in attesa di un'ulteriore verifica da parte della Repubblica Popolare, ma che ci siano ugualmente rivenditori europei e americani che offrono comunque i test a prezzi di mercato altissimi, esibendo una certificazione cinese contraffatta.
Dalla Cina all’Olanda
I test rapidi per Covid19 prodotti da Alltest sono identificati da un codice: INCP-402, che può comparire anche nelle varianti 402s, 402b, 4011a o BNCP-402 e BNCP-402e. Questo codice è attribuito al prodotto dalla fabbrica di origine: Alltest riporta INCP nello studio clinico con cui ha immesso sul mercato il prodotto. Inzek nello studio lo riporta come BNCP, ma gli autori sono gli stessi del report di Alltest, così come il prodotto. Almeno altre tre aziende che si inquadrano come “fabbricanti”, tra Europa e USA, stanno rivendendo test INCP-402 e varianti con il proprio marchio. Prodotti che in realtà dovrebbero riportare da qualche parte la dicitura “Made in China” e semmai assemblati altrove.
Si ottiene un'ulteriore conferma che i test in commercio siano sempre di produzione Alltest incrociando i codici di prodotto che si trovano nei foglietti illustrativi con le esportazioni che Alltest da Huangzhou fa in tutto il mondo.
Così spunta la principale azienda importatrice dei kit di Alltest, l'olandese Inzek International Trading BV, l'azienda produttrice dei dispositivi medici Biozek. Fino al 29 aprile scorso, sul sito dell'azienda questi test erano pubblicizzati come “prodotti in Olanda” e venduti a marchio CE. Chi li acquistava, specialmente a certe latitudini, presentava l'origine del prodotto come garanzia di qualità.
I test a marchio Biozek sono diventati molto popolari. L'amministratore delegato Zeki Hamid ha spiegato che l'azienda ha venduto e spedito finora ben 1,6 milioni di kit, contando tra i clienti più importanti Indonesia, Russia, Olanda, Kuwait, Arabia Saudita e Iraq. E un cliente d'eccellenza, il Vaticano (lo Stato della Chiesa ha ordinato 700 kit, come riportato da La Stampa).
La zona grigia
In Italia la “zona grigia” sulle normative commerciali si somma al fatto che, dopo l'avvio della fase 2, un po' per disorganizzazione un po' per mancanza di un piano comune, ogni Regione fa storia a sé. «Il Comitato Tecnico Scientifico (CTS), quindi ministero della Salute e Istituto superiore di sanità (ISS) in testa, non riconoscono al momento i cosiddetti test rapidi sierologici - quindi quelli che si basano su una goccia di sangue - come strumenti diagnostici validi. Noi ci atteniamo alle linee guida della comunità scientifica internazionale», spiega Cesare Buquicchio capo ufficio stampa del Ministero.
«È vero - concorda Buquicchio - molte regioni hanno acquistato i test rapidi nonostante ci fossimo chiaramente pronunciati contrari. Ma le posso assicurare che alcune di queste li hanno addirittura dovuti buttare via perché non funzionavano bene». In piena pandemia, ci si poteva aspettare un maggiore coordinamento a livello nazionale. Invece la zona grigia ha prevalso con il rischio che i test finiscano nelle mani di privati che non saprebbero come utilizzarli correttamente.
Un broker di un'azienda di e-commerce veneta di prodotti medici che chiede di restare anonimo spiega di aver «venduto rapid test sierologici, anche del tipo INCP402, ad aziende private non in ambito medico. Ma abbiamo preteso un certificato dal medico del lavoro dell'azienda, che dichiarasse come lo screening sarebbe avvenuto sotto la propria responsabilità».
Non tutti i rivenditori però sono così scrupolosi. Alcune aziende vendono online rapid test senza che avvenga alcuna valutazione sui compratori: basta un pagamento con Paypal. «Al momento c'è un buco normativo, perché non c'è nessuna norma che vieti vendere alla “signora Maria” ma non c'è nemmeno alcuna norma che lo consenta. Noi abbiamo semplicemente deciso di non farlo perché per politica aziendale non ci interessa» spiega a IrpiMedia il broker.
La Guardia di Finanza però si sta muovendo per impedire la vendita diretta al privato cittadino. Il Gruppo Tutela spesa Pubblica di Firenze il 4 maggio ha oscurato uno dei tanti siti web che vendeva illecitamente, tra vari prodotti medici, anche i sierologici pungidito. «L'azienda di e-commerce – spiega a IrpiMedia il comandante Marco Chetta - si era lanciata anche sui rapid test che adesso sono molto in voga. Chiedeva 59 euro a kit. I proprietari dichiaravano sul sito che la vendita era solo per operatori medici specializzati, ma in realtà non vi era il minimo controllo e li poteva acquistare chiunque».
Ci si aspetta che l'Istituto Superiore di Sanità si pronunci questa settimana per mettere una parola definitiva in materia. Il timore però è che le linee guida vengano lasciate vaghe per paura di infilarsi in un pantano. Lasciando così che viga ancora una zona grigia. Peccato, perché ciò che servirebbe è una risposta certa rispetto a quali strumenti usare, se questi stessi strumenti sono validi, e come incrociarli, per il monitoraggio dell'andamento epidemiologico e per la cosiddetta “fase 2”.
*Giornalisti di IrpiMedia/OCCRP
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