Mind the economy

Covid, la crisi che avremmo potuto immaginare e l’importanza del rischio

La classe politica si è fatta trovare impreparata di fronte alla pandemia, ignorando fino all’ultimo tutti i suoi sintomi. Il problema? Mancanza di immaginazione e avversione al rischio nella spesa pubblica

di Vittorio Pelligra

(Reuters)

9' di lettura

«Mancanza di immaginazione». È stata questa la risposta fornita da Ali Khan, preside del College of Public Health dell'Università del Nebraska, al suo intervistatore, David Quammen, noto autore di “Spillover. L'evoluzione delle pandemie” (Adelphi, 2012), libro best-seller internazionale su virus, cacciatori di virus, epidemie e zoonosi. Quammen, in una recente intervista ha chiesto a Khan, che per anni è stato direttore dell'Office of Public Health Preparedness and Response, la struttura incaricata di immaginare e progettare le risposte alla minaccia epidemica negli Stati Uniti, che cosa sia andato così rovinosamente storto nella gestione di SARS-CoV-2, che cosa ne sia stato della preparazione della sanità pubblica e perché la maggior parte dei paesi si sono trovati così impreparati.

«Una mancanza di informazione scientifica, o di soldi?» chiede Quammen. «Una mancanza di immaginazione» gli risponde Kahn. C'erano stati segnali d'allarme, la SARS nel 2002, la MERS nel 2014. Nello stesso anno il gruppo di scienziati diretti da Zheng-Li Shi dell'Istituto di Virologia di Wuhan riuscirono a capire il meccanismo di contagio dei coronavirus nell'uomo e condivisero i risultati con la comunità scientifica internazionale. In un altro studio coordinato sempre da Shi e pubblicato nel 2017, si dava conto della scoperta di tre nuovi coronavirus presenti nei pipistrelli e capaci di infettare gli esseri umani.

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L'articolo si concludeva con queste parole: «Il nostro lavoro fornisce nuove conoscenze circa l'origine e l'evoluzione del SARS-CoV e pone in risalto la necessità di prepararci adeguatamente ad affrontare future emergenze legate a malattie simili alla SARS» (Hu, B., et al. “Discovery of a rich gene pool of bat SARS-related coronaviruses provides new insights into the origin of SARS coronavirus”, PLOS Pathogens, November 30, 2017).

Il rimpianto di non aver pensato (o voluto pensare) ai rischi
Queste parole generano, oggi, rabbia e rimpianto. Dal giorno della sua pubblicazione questo studio è stato consultato una media di cento volte al mese; da gennaio scorso, però, i numeri sono cambiati fino ad arrivare a diciottomila download nel solo mese di maggio. Un'attenzione tardiva, si direbbe. Quando, dopo la vittoria contro l'epidemia SARS, Quammen chiese a Brenda Ang, il medico responsabile delle misure di prevenzione e controllo delle infezioni ospedaliere dell'Ospedale di Singapore dove si registrò il primo caso, nel 2003, che cosa la preoccupasse di più del “dopo”, lei rispose: «L'autocompiacimento e l'apatia». Si dimentica in fretta, ci si rilassa, si abbassa la guardia, «Ci si compiace di sé. Si pensa che in giro non ci siano più virus” e si trascura il fatto che “Le malattie infettive sono globalizzate [e che] non ha senso proteggere solo il proprio orticello».

Una tragica «mancanza di immaginazione», dunque, secondo Khan, ci ha fatti trovare impreparati ad affrontare questa pandemia e ha rallentato la nostra reazione dando tempo al virus di mietere molte più vittime di quelle che una pronta reazione, gli avrebbe concesso. «Gli scienziati potevano descrivere i rischi, i funzionari sanitari potevano progettare una risposta, ma i burocrati del governo e la leadership nazionale non sono stati in grado di comprendere la potenziale gravità dell'epidemia», dice Kahn a proposito della reazione degli Stati Uniti.

Era il 30 marzo quando il presidente Trump affermava che fino ad un mese prima nessuno avesse mai sentito parlare di questo virus. «Nessuno ne aveva idea». Forse anche perché il Directorate for Global Health Security and Biodefense, la struttura fondata subito dopo l'epidemia di Ebola del 2014 per identificare il rischio pandemia e reagire con prontezza ed in maniera coordinata, finanziata sia dall'amministrazione Bush che da quella Obama, era stata smantellata nel maggio 2018 dall'allora consigliere per la sicurezza nazionale dello stesso Trump.

Il deficit da attenzione delle economie avanzate
Ma gli Stati Uniti non sono un caso isolato. Il problema riguarda tutti i paesi avanzati che, pur avendo le risorse e le conoscenze necessarie per non farsi trovare impreparati dalla nuova epidemia, si sono fatti prendere da «un disturbo da deficit di attenzione su scala globale», come lo ha definito, in una recente intervista, il virologo Dennis Carroll.
Investire soldi pubblici è sempre un rischio, soprattutto investire soldi pubblici per far fronte ad eventualità che, se da una parte possono determinare danni enormi, dall'altra hanno una bassissima probabilità di verificarsi, è un rischio che pochissimi politici sono disposti ad assumersi.

Se spendi una somma ingente, o perfino piccola, per assicurarti contro un rischio che non si manifesta durante il tuo mandato, gli elettori vedranno solo i soldi spesi che si sarebbero potuti spendere per altro e nessun rischio scongiurato. Il brevetermismo, tipico della politica dei nostri giorni, e la difficoltà a ragionare in termini di rischio, sia dei decisori pubblici che della maggior parte dei loro elettori, possono produrre, in casi come questi, una combinazione mortale. Il caso delle mascherine in Italia è emblematico.

I soldi pubblici e l’avversione all’ambiguità
Perché spendere soldi pubblici per costituire delle riserve di mascherine che sarebbero indispensabili nel caso di una epidemia, se neanche sappiamo quantificare il rischio che una simile epidemia si sviluppi? C'è un fenomeno interessante che può aiutarci a comprendere questo atteggiamento diffuso; un fenomeno che prende il nome di «avversione all'ambiguità» ed è stato reso famoso da Daniel Ellsberg, oggi decisamente più noto per la storia dei Pentagon Papers, raccontata nel film «The Post».

Immaginate di avere di fronte un'urna che contiene 30 palline rosse e altre 60 palline nere e gialle in una proporzione non conosciuta. Vi vengono proposte due scommesse: in un caso (A) potete vincere $100 se viene estratta una pallina rossa e nel secondo caso (B), invece, potete vincere $100 se viene estratta una pallina nera. Un'altra coppia di scommesse prevede una vincita di $100 se viene estratta una pallina rossa o gialla (C), oppure $100 se viene estratta una pallina nera o gialla (D). Si preferisce A a B quando siamo convinti che sia più probabile estrarre una pallina rossa invece di una nera. Quando pensiamo, cioè, che ci siano più palline gialle che palline nere dentro l'urna. Questa stessa convinzione dovrebbe portarci a preferire C a D.

Se invece preferiamo B ad A, perché crediamo che le palline nere siano più numerose di quelle rosse, allora, per la stessa ragione, dovremmo preferire D a C. Eppure, quando il problema viene posto a giocatori reali, la maggior parte di loro finisce per preferire A a B e, contemporaneamente, D a C.

Questo risultato, noto col nome di «Paradosso di Ellsberg» è legato alla nostra preferenza per i rischi noti piuttosto che per quelli ignoti. Siamo, in altri termini, «avversi all'ambiguità». Lo abbiamo ripetuto tante volte in queste pagine, noi non siamo logici, ma psico-logici. Il modo in cui ragioniamo intorno a rischio e probabilità si discosta notevolmente da quello che è il modo in cui dovremmo ragionare e dalle regole delle teorie normative. Un secondo esempio, di carattere medico, questa volta, può farci cogliere meglio il punto. Si tratta di un esperimento classico e, alla luce dei fatti di questi mesi, anche fastidiosamente profetico.

Immaginate che stia per scoppiare una grave epidemia di una malattia asiatica finora sconosciuta. Ci si aspetta che l'epidemia uccida, in una certa città, circa 600 persone. Le autorità sanitarie hanno elaborato due programmi alternativi di cura che forniscono alcuni scenari sui quali, in veste di decisore pubblico, dovete esprimere una preferenza: la cura A salverà 200 persone con certezza, mentre la cura B, invece, potrà salvare 600 persone, ma solo con probabilità pari a 1/3. Immaginate che ad un secondo gruppo vengano presentate altre due alternative: la C che determinerà la morte di 400 persone con certezza e la cura D che presenta una probabilità pari a 1/3 che nessuno muoia.

Cosa scegliereste? Ciò che i risultati degli esperimenti mostrano è che, in genere, le persone preferiscono la cura A alla cura B e la cura D alla cura C (Tversky, A., Kahneman, D.,1981. «The framing of decisions and the psychology of choice». Science, 211, pp. 453-458). Chiaramente non c'è una risposta giusta e una sbagliata. Preferire A a B o, viceversa, oppure C a D o D a C, semplicemente dipende dal nostro atteggiamento individuale nei confronti del rischio. Dalla nostra maggiore o minore disponibilità ad assumere rischi.

I problemi nascono quando confrontiamo le scelte, contemporaneamente, in entrambe le situazioni. Nell'esperimento originale, per esempio, il 72% dei partecipanti preferisce A a B, mentre il 78%, invece, opta per la cura D invece che la C. Qui nascono i problemi. Se scegliamo A invece di B, infatti, vuol dire che attribuiamo un valore maggiore a 200 vite salvate con certezza che a 600 salvate con probabilità 1/3. Se scegliamo D al posto di C, stiamo dicendo, invece, che preferiamo 600 vite salvate con probabilità pari a 1/3 piuttosto che 200 salvate con certezza. Le due scelte sono in palese contraddizione tra loro. Questa contraddizione è generata invariabilmente, anche nel caso di soggetti esperti, dal modo in cui le alternative vengono presentate (framed). Se le alternative sono poste sotto forma di vite salvate, la nostra scelta sarà più avversa al rischio e ci farà preferire l'opzione certa (200 vite salvate al 100%).

Quando diventiamo propensi al rischio
Se, invece, gli scenari vengono presentati in termini di vite perse, allora, diventiamo propensi al rischio e ciò ci farà preferire l'alternativa rischiosa (600 vite salvate al 33%). Torniamo, ora, per un attimo, al Paradosso di Ellsberg. L'avversione all'ambiguità ci dice che, regolarmente, le persone preferiscono correre rischi sulla base di probabilità note piuttosto che sulla base di dati sconosciuti. Alcuni studi successivi, condotti da Amos Tversky e Craig Fox, hanno ulteriormente dimostrato che la preferenza per le probabilità note piuttosto che per quelle sconosciute varia con il livello di competenza specifica rispetto alla situazione.

Se sono bravo a giocare a freccette preferirò giocare a quel gioco piuttosto che a dadi, anche se le probabilità dei dadi sono note e quelle dei risultati delle freccette sono ambigue. Se mi intendo di politica e per nulla di calcio, sarò propenso a scommettere su un risultato elettorale piuttosto che sui dadi (rischio calcolato) anche quando le quotazioni delle vincite sono le stesse. Contemporaneamente, sempre a parità di quote, sceglierò i dadi alle scommesse sul calcio. Quello che emerge da questi ulteriori indagini è che l'avversione all'ambiguità è generata, principalmente, da un “senso di incompetenza” rispetto alla specifica situazione (Tversky, A., Fox, G., 1995. “Ambiguity Aversion and Comparative Ignorance”, Quarterly Journal of Economics 110(3) pp. 585-603).

«La spinta a investire – in previsione e prevenzione - è davvero poca, quando la minaccia non è chiara e non è presente», afferma Dennis Carroll nella sua intervista. Quando oltre all'ambiguità del rischio si aggiunge, quindi, l'incompetenza specifica (o la sfiducia nei confronti dei «competenti»), allora il cocktail può diventare micidiale. Verso quale direzione muoversi, dunque, visto che ogni scelta implica un trade-off? Se investo in sanità, infatti, avrò meno da investire in qualche altro settore e la coperta sarà sempre troppo corta?

I tre approcci sul trade-off della spesa
Ci sono tre approcci principali al problema: il primo è quello dell'ottimista e si chiama «maximax». Questo criterio decisionale ci spinge a ricercare il risultato migliore ottenibile nello scenario migliore possibile. Se le cose vanno bene, dobbiamo metterci nelle condizioni di sfruttare al massimo quelle fortunate circostanze. Il secondo criterio è quello del pessimista; lo definiamo «maximin» ed è utile se vogliamo minimizzare i danni; massimizzare, cioè, il risultato nel peggiore degli scenari possibili. Spesso questo criterio ci spinge ad una prudenza eccessiva e ci immobilizza rispetto alle innovazioni, che, per loro natura, sono spesso rischiose. Il terzo principio è quello del «minimax regret». Questo principio ci guida verso quelle scelte che minimizzano il massimo rimpianto.

Dovremmo cercare di decidere tenendo a mente non solo il risultato che vorremmo ottenere, ma anche la differenza tra quello che otteniamo e quello che avremmo potuto ottenere se avessimo scelto diversamente. Il minimax regret ci spinge a operare per minimizzare tale differenza. Questo principio decisionale ha il vantaggio di poter essere applicato anche quando le probabilità non sono note, e, per questo, in qualche misura, può mitigare l'avversione all'ambiguità.

Dirottare risorse dalla sanità per finanziare spese largamente improduttive, per esempio, non va mai bene, ma quando poi scoppia una epidemia che causa decine di migliaia di morti, molte delle quali, potenzialmente evitabili, allora ti rendi conto che il rimpianto è decisamente elevatissimo ed è con quello in mente che avresti dovuto scegliere come investire quei soldi.

Considerare misure e politiche che minimizzino sempre quel massimo rimpianto, può essere saggio e, spesso, anche economicamente conveniente. A conclusione del suo libro «The Next Pandemic» (PublicAffairs, 2016), Ali Khan suggerisce che è ora di smettere di considerare il sistema sanitario pubblico come quel martelletto di sicurezza con sotto la scritta «in caso di emergenza rompere il vetro» e di iniziare, piuttosto, ad investire nelle misure di prevenzione «per rafforzare le nostre comunità contro quest'incubo», e ciò significa: ricerca, monitoraggio degli spillover, produzione di test diagnostici in gran numero, accresciuta capacità di risposta delle strutture mediche, filiere affidabili per la produzione e distribuzione dei dispositivi di protezione individuale e dei respiratori, coordinamento tra città, regioni, nazioni e agenzie internazionali, educazione dei cittadini, una migliore amministrazione della sanità e finanziamenti sicuri.

Se il rischio è una volontà politica
Ma la cosa più importante di tutte è – conclude Kahn - «la volontà politica di assumersi il rischio di sostenere le spese per una preparazione di cui forse non ci sarà bisogno». Lo abbiamo fatto a lungo negli anni della proliferazione nucleare per creare arsenali costruiti con l'unica finalità di non essere utilizzati e non lo possiamo fare oggi con gli ospedali, i letti in rianimazione, i dispositivi di protezione, la ricerca scientifica?
Speriamo davvero di poter contare su tutte queste cose se dovesse arrivare una nuova pandemia; per questa, ormai, è troppo tardi.
Governare cercando di minimizzare il massimo rimpianto significa, anche, mettersi nelle condizioni di non dover mai più accorgersi che ormai è troppo tardi.

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E ora investiamo nel nostro bene più prezioso, i bambini
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