Asia e Oceania

Cresce l’esposizione della Ue nell’azionario cinese offshore

di Rita Fatiguso

(REUTERS)

3' di lettura

Raddoppiano gli investimenti di capitale in Cina nei primi quattro mesi sul 2020, in crescita dell’11,5% rispetto al 2019. In volume toccano quasi quota 60 miliardi dollari, con oltre 14.500 nuove società straniere nate, finora, nel 2021.

L’incremento degli investimenti in arrivo dall’Europa è stato del 9,2%, inclusi quelli realizzati via porto franco.

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Dati in linea con la ripresa commerciale, infatti Eurostat conferma che nel primo trimestre l’interscambio è tornato a livelli pre-pandemici (export a 195,1 miliardi di euro, +10.6, import a 176,3 miliardi, +19%) con la Germania leader nell’export e l’Olanda dell’import.

La Cina si conferma primo partner dell’Unione europea, ma d’ora in poi la musica potrebbe cambiare e l’idillio incrinarsi, a causa degli effetti del congelamento dell’accordo di principio sui reciproci investimenti Ue-Cina siglato a fine dicembre. Il blocco è stato deciso venerdì da una mozione parlamentare passata a larghissima maggioranza, che subordina ogni passo futuro al dietrofront cinese nei confronti delle sanzioni inflitte ai funzionari europei, inclusi 5 deputati, che chiedevano a Pechino il rispetto dei diritti umani. Il ministero del Lavoro cinese ha appena attivato la procedura formale del recepimento della più vecchia delle due direttive sul lavoro forzato, quella degli anni Trenta (e relativo protocollo del 2014), ma il futuro delle relazioni resta incerto. «La Cina potrebbe unilateralmente aprire altri settori», azzarda Marco Marazzi di BakerMckenzie. «Di certo il fronte commerciale è il meno preoccupante, ogni Paese già vanta il proprio accordo bilaterale con la Cina, a meno che non si finisca ai ferri corti con Pechino, come è successo all’Australia».

L’elemento reale di preoccupazione - se le cose dovessero peggiorare - sta, piuttosto, negli investimenti di capitale finanziario non ricompresi negli Fdi del ministero del Commercio: azioni, bond, assicurazioni, specie i flussi che passano attraverso società create nei paradisi fiscali per aggirare le barriere all’ingresso di capitali in settori protetti.

L’accordo di principio del CAI ha un capitolo, reso più concreto negli allegati, che tocca il tema della liberalizzazione dei flussi reciproci di capitali. Ma per il momento, al pari degli Usa, anche i Paesi Ue che investono nei mercati azionari e obbligazionari cinesi, non potendo farlo direttamente, ricorrono alle società parallele cinesi (VIE) create nei paradisi fiscali, vietate in astratto.

Quantificare questa esposizione verso le società quotate nei listini cinesi non è cosa semplice, bisogna riconsiderare i flussi alla luce dei parametri individuati dal progetto del pool di economisti di Globalcapital - dal punto di vista della nazionalità di provenienza dei flussi e non della residenza delle società sulle quali si investe, perché così la prospettiva cambia completamente. Ma anche del valore sviluppato dal volume di vendite, le azioni delle società offshore che possono essere rivendute ovunque e generare utili, passare dagli Usa via Giappone ed essere rivendute in Cina, grazie anche al fatto che il Giappone paga merci made in China.

Anche l’Europa ha realizzato investimenti ad alto rischio in società cinesi a Bermuda, Cayman, Irlanda, Lussemburgo, Olanda Panama attraverso VIE cinesi. L’esposizione dei Paesi Ue nei confronti del solo azionario cinese eccede i 320 miliardi di dollari, tre volte tanto le cifre ufficiali. Un terzo è targato Cayman, seguita da Hong Kong (con importi minimi). Considerando l’elemento residenza, gli Usa vantano appena il 2% cinese in portafoglio, 10 se si utilizza il criterio della nazionalità, 15 se si considera l’indicatore delle vendite/profitti. In base a quest’ultimo criterio, nell’Eurozona è targato Cina il 10% dell’azionario in portafoglio.

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