Cresce il rischio fallimenti nell’alimentare e solo il 5% delle aziende ha indici Esg positivi
Secondo Crif rischiosità sopra la media nel comparto alimentare a causa del caro materie prime ed energia, tiene meglio il settore agricolo
di Emiliano Sgambato
3' di lettura
Le aziende alimentari mostrano «un significativo incremento del tasso di default, che a fine 2022 si attesta attorno al 4%», regge meglio il comparto agricolo «sebbene con tassi superiori al 2%». Il rischio insolvenza emerge dalla fotografia scattata dall’agenzia di rating Crif che ha analizzato i bilanci di circa 11mila aziende italiane del settore e secondo cui «l’esame degli andamenti delle aziende nel 2021 e 2022 mette in evidenza come il contesto macroeconomico di instabilità abbia influenzato le performance del settore agricolo e parallelamente anche di quello alimentare, sebbene in modo differente».
Se da un lato nell'agroalimentare è stato registrato un deciso aumento dei fatturati, con una crescita generale del valore generato, dall’altro si è verificato un significativo incremento della rischiosità, con i default che a livello nazionale sono aumentati di almeno 1 punto percentuale.
«Questo peggioramento così marcato del food & beverage è il riflesso della forte esposizione del comparto all'aumento dei prezzi delle materie prime e dell'energia – spiega Luca D’Amico, amministratore delegato di Crif Ratings – mentre risultano più in linea con le evidenze nazionali i tassi di default nel settore agricolo. La crescita record dei fatturati è riconducibile prevalentemente alla spinta dell'inflazione, che ha portato le imprese dell'agroalimentare a rialzare i prezzi dei propri prodotti a listino. Nel 2023, crediamo che i fatturati continueranno a progredire per effetto dell'inflazione, ma allo stesso tempo i margini operativi resteranno sotto pressione».
Cercando un confronto anche con altri settori, entrambi comparti agricolo e alimentare, si collocano all'interno del «corridoio» rappresentato dal cosiddetto “Leisure” (che comprende ristorazione, viaggi e turismo, lotterie, attività ricreative, sportive e di intrattenimento), che segna i risultati più critici in assoluto, e dal comparto farmaceutico che segna invece i risultati migliori. «In ogni caso – sottolinea Crfi – l’agroalimentare è comunque sopra la media italiana».
Nelle imprese agricole Crif registra un debito finanziario lordo quasi 7 volte superiore al margine operativo lordo, in media, «un rapporto che scende a 4 nell’alimentare, ma che resta comunque sopra la media nazionale».
A causa della pandemia «le aziende dal 2020 hanno fatto maggiore ricorso al credito, accumulando una massa di debiti, che ha portato a un marcato squilibrio tra il debito e il margine operativo lordo».
Il riassesto, con il ritorno ai livelli pre-Covid, viene rallentato attualmente da un contesto macroeconomico ancora instabile.Allo stesso tempo, l'autofinanziamento delle imprese attraverso la gestione operativa risale a rilento, con un andamento molto più basso rispetto alla media italiana, andando a scapito della sostenibilità economica degli impegni contratti.
Il settore alimentare infatti segna in media «un margine operativo lordo che è circa 10 volte gli oneri finanziari, un rapporto che scende a 8 circa per l’agricoltura, quando la media nazionale è superiore alle 15 volte».
Inoltre, la politica monetaria espansiva non gioca a favore e il contesto di rialzo, che continuerà del 2023, potrebbe mettere sotto pressione i settori e le imprese strutturalmente più fragili.
Invece, «per quanto riguarda il rapporto tra cassa e debito finanziario, la liquidità aveva mostrato un miglioramento favorito dagli interventi governativi. Però, l'avvio dei rimborsi delle quote capitale porterà ad intaccare i livelli di liquidità delle imprese, con effetti maggiori in situazioni di sovra-indebitamento». Per l'alimentare, infatti, la cassa equivale all'80% circa del debito finanziario a breve, quota che nell'agricoltura scende al 60%, mentre la media nazionale si attesta sul 140%.
Nel comparto, secondo la società di rating bolognese c'è molta strada da fare sulla digitalizzazione dei processi, sulla tracciabilità delle filiere, nonché sull'ottimizzazione delle risorse idriche ed energetiche, così come su tutti quei fattori che vanno a comporre gli indici Esg (Environmental, Social, Governance).Secondo quanto rilevato da Crif Ratings, infatti, il 95% delle aziende ha dei punteggi ESG negativi o pessimi.
Le aziende agricole, oltre ad essere le più esposte ai rischi fisici e di transizione, sono anche caratterizzate da ampi margini di miglioramento sulle tematiche sociali (“S”: Social), con riferimento al forte precariato, stagionalità degli impieghi e, talvolta, dalla limitata attenzione a welfare/diritti umani. Sul piano della gestione di impresa invece (“G”: Governance), emerge come la maggior parte sono aziende per lo più a conduzione familiare, destrutturate, con poca trasparenza ed equità interna.
«È un settore che può presentare esempi molto virtuosi – si legge nel report – come le aziende che applicano circular economy e progetti di rigenerazione della biodiversità, sebbene questi aspetti difficilmente riescano ad emergere perché si tratta ancora di una casistica limitata».
Sul piano dell'impatto ambientale (“E”:Environmental), «le filiere agroalimentari nel loro complesso – nota Crif – sono responsabili di una quantità molto consistente di emissioni di CO2. Proprio una delle sfide chiave è quella della protezione delle risorse naturali con la conservazione dell'ambiente, evitare il deterioramento dei terreni, limitare il contenimento dell'inquinamento delle fonti idriche, e contrastare la distruzione di ecosistemi».
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