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Crisi climatica, le promesse e i rischi dell’ingegneria

L’Ipcc ha preso atto che occorre anche esplorare le tecnologie come la rimozione meccanica dei gas serra o la schermatura delle radiazioni solari

di Elena Comelli

Devastazione. Le temperature sopra la media, dovute al surriscaldamento globale, il vento e la siccità facilitano il divampare di grandi incendi

4' di lettura

«Datemi una nave piena di solfati di ferro e vi darò la prossima glaciazione». Questo era lo slogan di John Martin, un oceanografo americano padre della “teoria del ferro”, che aveva il pallino di fertilizzare le zone morte degli oceani, per innescare una fioritura di fitoplancton capace di assorbire milioni di tonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera, raffreddando così il clima. L’eredità di “Iron Man”, scomparso anzitempo nel ’93, è stata raccolta da una serie di start up, fra cui l’australiana Ocean Nourishment, che speravano di riuscire a commercializzare la fertilizzazione degli oceani guadagnando crediti di carbonio, analogamente a quanto succede con i progetti di riforestazione. A oggi, però, prevale la prudenza.

Decine di esperimenti (gli ultimi pochi giorni fa al largo dell’Alaska e del New England) hanno dimostrato che Martin aveva ragione, anche se la fioritura non è enorme come lui sperava e quindi il suo sistema non avrà mai un effetto così significativo da «innescare una glaciazione». Tantissimi laboratori di biologia marina in giro per il mondo studiano il fenomeno, ma soprattutto le sue conseguenze sugli ecosistemi. La fertilizzazione degli oceani, infatti, in certi casi rischia di alimentare un'eccessiva crescita di alghe là dove non serve, portando a conseguenze indesiderate, come le fioriture tossiche. Il principio di precauzione, per ora, frena questo tipo di manipolazioni degli ecosistemi naturali. Non è detto, però, che i dubbi continueranno a prevalere man mano che l’emergenza climatica diventerà più estrema.

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Alleviare i sintomi con la tecnologia

Curare la malattia, lo sappiamo tutti, è meglio che intervenire sui sintomi. In certi casi, però, il dolore è talmente acuto che bisogna cercare di alleviarlo. Lo stesso ragionamento vale anche per il clima malato. L’unica vera cura è smettere di bruciare combustibili fossili per tagliare le emissioni umane di gas climalteranti, che sono all’origine dell’effetto serra e continuano a crescere invece di calare. Alla lunga, però, sarà necessario anche cercare di alleviare i sintomi con le tecnologie che abbiamo a disposizione, come ha precisato nell’ultimo rapporto lo stesso Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu. «Praticamente tutti i Paesi che hanno degli scienziati del clima sono interessati all’ingegneria climatica», spiega Daniele Visioni, climatologo alla Cornell University.

La ricerca, soprattutto negli Usa e in Europa, si concentra su due forme principali d’intervento. Da un lato la rimozione con mezzi meccanici o chimici (come nel caso della “teoria del ferro”) dei gas serra dall’atmosfera, meglio nota come Cdr o Carbon Dioxide Removal. Dall’altro lato, le tecniche di schermatura dalle radiazioni solari, abbreviate con l’acronimo Srm (Solar Radiation Management).

I solfati per riflettere la radiazione solare

In agosto, ad esempio, la start up Make Sunsets ha lanciato in atmosfera una manciata di palloni sonda pieni di anidride solforosa. Come previsto, i palloni sono scoppiati e hanno rilasciato il gas nella bassa stratosfera, la parte dell'atmosfera terrestre che contiene lo strato di ozono che protegge il pianeta dalle radiazioni solari. L'anidride solforosa si ossida per formare un aerosol di solfati che riflettono parte della radiazione solare per rispedirla nello spazio, come succede con gli aerosol sulfurei emessi durante le eruzioni vulcaniche. Quando il Monte Pinatubo eruttò nelle Filippine nel 1991, ad esempio, produsse la più grande nube solforosa mai misurata, causando una riduzione della temperatura globale di circa mezzo grado Celsius nel corso dell’anno successivo. Effetti analoghi furono misurati dopo le famose eruzioni del Tambora nel 1815 e del Krakatoa nel 1883.

Altre tecniche di Srm, ancora più ambiziose, prevedono addirittura di mettere in orbita un sistema di specchi oppure si propongono di aumentare l'albedo delle nuvole intervenendo sui loro nuclei di condensazione, le sottilissime particelle attorno cui si aggregano le gocce di vapore acqueo. C’è chi propone, più modestamente, di aumentare l’albedo terrestre (che oggi in media si ferma al 30%) ricoprendo i deserti con vere e proprie coperte riflettenti oppure dipingendo con un bianco riflettente i tetti degli edifici, le strade e altre pavimentazioni. Tutte ipotesi fantasiose ma spesso impraticabili (ad esempio i deserti sono organismi viventi impossibili da ricoprire e i tetti bianchi cozzano con la diffusione del fotovoltaico), che possono avere un impatto significativo sugli ecosistemi e che vanno quindi studiate attentamente anche dal punto di vista etico e sociale.

Come governare un processo rischioso?

Un esempio virtuoso in questo senso è il progetto britannico Spice (Stratospheric Particle Injection for Climate Engineering), una collaborazione fra le università di Oxford, Cambridge, Edimburgo e Bristol, che spinge i ricercatori a ragionare sui possibili impatti della propria ricerca e propone una riflessione su temi come la governance dell’innovazione e la partecipazione pubblica ai processi decisionali che riguardano l’ingegneria climatica. Sulla stessa linea si muove anche l’Ipcc, che cita più volte le tecniche di ingegneria climatica nel suo ultimo rapporto come degne di essere esplorate. Nonostante la tecnologia non sia ancora matura, sui progetti di rimozione del carbonio si nota un discreto consenso tra gli scienziati. Ancora molti dubbi invece aleggiano intorno alla gestione delle radiazioni solari, per via degli eventuali effetti collaterali. In complesso, gli esperti dell’Ipcc concordano sul fatto che la ricerca scientifica sull’ingegneria climatica ha ancora bisogno di tempo. Ma di tempo per contenere il surriscaldamento del clima sotto il grado e mezzo non ne abbiamo più. Su questo il sesto rapporto non ha dubbi.

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