Crisi, si fa strada (tra molti ostacoli) un governo giallo-rosso tra M5S e Pd
Gli ultimi due giorni del governo Conte sostenuto da M5s e Lega sembrano aprirsi con la concreta possibilità che la crisi abbia lo sbocco di un cambio totale di maggioranza in Parlamento per l’avvio di un esecutivo formato dal M5s e dal Pd
di Emilia Patta
5' di lettura
Gli ultimi due giorni del governo Conte sostenuto da M5s e Lega sembrano aprirsi con la concreta possibilità che la crisi abbia lo sbocco di un cambio totale di maggioranza in Parlamento per l’avvio di un esecutivo formato dal M5s e dal Pd. Con l’aggiunta della sinistra di Leu, delle Autonomie e forse anche di Forza Italia (importante l’apertura in questo senso di Matteo Renzi, che in un’intervista al Giornale dichiara di rimpiangere il senso dello Stato di Silvio Berlusconi). Un esecutivo che relegherebbe la Lega di Matteo Salvini all’opposizione a tempo indeterminato: quasi una beffa per chi solo pochi giorni fa aveva aperto la crisi con l’obiettivo di tornare alle elezioni entro ottobre e fare il pieno di voti per governare «senza palle al piede».
Da qui la giravolta di Salvini, iniziata già in Senato il 13 agosto con la proposta di congelare la crisi per votare il 22 alla Camera l’ultimo sì alla riforma che taglia il numero dei parlamentari tanto cara al M5s e proseguita anche a Ferragosto e nei giorni successivi. Tant’è vero che la mozione di sfiducia contro Conte da presentare il 20 è sparita dall’orizzonte. «Farò di tutto per impedire che Renzi torni al governo», ripete Salvini dal suo buen retiro a casa di Denis Verdini, padre della sua fidanzata Francesca. Sembra sia stato lo stesso Verdini a consigliarlo di provare la riappacificazione con i pentastellati per puntare a un rimpasto ed uscire così dal cul de sac.
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Evidentemente Salvini non si aspettava la proposta di Renzi, che controlla ancora la maggioranza dei gruppi parlamentari del Pd, di un esecutivo istituzionale che eviti intanto l’aumento dell’Iva e il rischio recessione e aveva puntato sulle divisioni del Pd e sulla volontà del segretario Nicola Zingaretti di tornare al voto senza apparecchiare «governicchi». Proposta, quella di Renzi, che ha in effetti spiazzato la stessa segreteria e che ha prodotto nei giorni seguenti il via libera a un governo di legislatura con il M5s da parte di vari big, da Dario Franceschini - che da sempre auspica un incontro con i pentastellati in funzione antisalviniana - fino ad Enrico Letta e a Romano Prodi. Zingaretti, in sintonia con il presidente del partito ed ex premier Paolo Gentiloni, continua ad avere più di una perplessità rispetto al dialogo in questa legislatura con il M5s e a preferire la strada del ritorno davanti agli elettori. Nonostante l’apertura a verificare «sotto l’ombrello del Presidente Mattarella» le condizioni per tale governo, le resistenze di Zingaretti e Gentiloni insomma restano. Anche perché non si fidano di Renzi, che potrebbe a breve far partire un suo progetto politico autonomo e poi staccare la spina – è il timore - al governo giallo-rosso, forte del numero dei parlamentari del Pd della sua area, in qualsiasi momento.
È chiaro che le resistenze del segretario del Pd e il clima di non fiducia all’interno del partito che dovrebbe costruire un programma con il M5s e scegliere gli uomini e le donne che ne faranno parte sono fattori che influiranno sul successo o meno della trattativa. Per far saltare la quale basta poco: porre il veto su Luigi Di Maio o Giuseppe Conte nel nuovo governo, porre il veto sul taglio del numero dei parlamentari imprescindibile per il M5s, porre il veto sulle misure economiche che dovranno entrare nella prossima legge di bilancio. Le divergenze ci sono e sono anche profonde (si pensi alla Tav), e solo una volontà politica coesa dei democratici potrà superarle.
Da parte sua il M5s in queste ore sta facendo muro contro i tentativi di riavvicinamento di Salvini. È chiaro che anche qui è venuta meno la fiducia, come è chiaramente emerso dal vertice tra Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Luigi Di Maio e altri big del Movimento: «Tutti i presenti - dice la nota finale del vertice - si sono ritrovati compatti nel definire Salvini un interlocutore non più credibile. Prima la sua mossa di staccare la spina al Governo del cambiamento l’8 agosto tra un mojito e un tuffo. Poi questa vergognosa retromarcia in cui tenta di dettare condizioni senza alcuna credibilità, fanno di lui un interlocutore inaffidabile, dispiace per il gruppo parlamentare della Lega con cui è stato fatto un buon lavoro in questi 14
mesi. Il Movimento sarà in Aula al Senato al fianco di Giuseppe Conte il 20 agosto».
Sembra tuttavia che Di Maio continui ad avere più di una perplessità sul grande salto cambiando partner di governo, e si capisce: se dovesse partite il treno del governo giallo-rosso la sua leadership si annacquerebbe, essendo stato lui l’uomo dell’accordo con Salvini a inizio legislatura, in favore di altre personalità come il presidente della Camera Roberto Fico e lo stesso premier ormai uscente Conte. Insomma, le dinamiche interne al M5s e la forza di cui ancora dispone Di Maio sono fattori importanti, tanto quanto le divisioni del Pd, per il successo o meno della trattativa.
A favore di un accordo tra M5s e Pd in funzione antisalviniana giocano tuttavia alcuni fattori importanti. Il primo è il meno nobile, se si vuole, ma è una legge della politica: la resistenza a tornare al voto per il timore di non essere rieletti della maggioranza del Parlamento: Fi, piccoli gruppi e M5s perché destinati a prendere molti meno voti rispetto al 2018, il Pd perché i renziani o gli ex renziani che costituiscono la maggioranza dei gruppi parlamentari non sarebbero in gran parte ricandidati dal nuovo segretario Nicola Zingaretti.
C’è poi una resistenza istituzionale a tornare al voto in piena sessione di bilancio, cosa che non a caso non è mai avvenuta, e ad anticipare le elezioni se esistono in Parlamento i numeri per una maggioranza alternativa che completi la legislatura di 5 anni.
Infine, ma non ultima ragione, le forzature di Salvini delle ultime settimane, quell’invocare “pieni poteri” e quell’intimare ai parlamentari liberamente eletti “alzate il c… e tornate a Roma”, hanno rafforzato i timori già esistenti delle Cancellerie europee di un possibile governo monocolore della destra sovranista in Italia, e quindi della definitiva messa in discussione delle due alleanze storiche dell’Italia repubblicana, quella altlantica e quella europea, spostando l’asse del nostro Paese verso la Russia di Vladimir Putin.
Fino al pomeriggio del 20 agosto a determinare l’esito della crisi saranno da una parte i timori e le diffidenze del M5s e del Pd, interne ai due partiti e tra di loro; dall’altra le resistenze istituzionali verso elezioni anticipate e le spinte antisalviniane delle cancellerie europee, ben presenti al Quirinale.
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