Opinioni

Criteri di valutazione più efficaci negli atenei

di Fabio Beltram

(© Walter Zerla)

3' di lettura

L’attuale sistema di valutazione delle università trae origine della riforma del 2010 (legge Gelmini). A valle di questa, alcune decine di decreti hanno definito le procedure per la valutazione di vari aspetti dell’attività degli atenei. Gli atenei sono così accreditati, autorizzati ad attivare corsi, e, soprattutto, finanziati.

In questi processi in aggiunta al ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (Miur) vi è un secondo attore: l’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). Le procedure messe in opera da Miur e Anvur hanno ricevuto numerose critiche e in alcuni casi è stata messa in discussione la stessa opportunità che processi valutativi esistano. Queste questioni sono particolarmente attuali: nella maggioranza vi sono forze politiche che hanno fatto proprie alcune di queste critiche e le stanno ora portando nell’agenda di governo.

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È utile premettere che l’autonomia universitaria rende indispensabile una puntuale analisi della performance degli atenei per fornire a Miur e organi di governo degli atenei gli strumenti per decisioni informate. Questa necessità però non deve giustificare qualunque procedura valutativa: anche la valutazione deve essere valutata.

I capisaldi dell’attuale architettura valutativa sono Ava (autovalutazione, valutazione e accreditamento) e Vqr (Valutazione della qualità della ricerca).

Ava definisce i requisiti per l’autorizzazione allo svolgimento delle tre funzioni di un ateneo: formazione, ricerca, trasferimento di conoscenze alla società (la terza missione). Ava è utile quando fornisce raccomandazioni e strumenti affinché aumentino efficacia e successo degli atenei. Nell’implementare le linee guida europee, però, un’eccessiva attenzione a processi e protocolli ha offuscato l’attenzione all’effettiva performance delle università: sceglieremmo un chirurgo in base all’accuratezza della modulistica pre-operatoria? C’è quindi il pericolo di uno strabismo di valutazione: in alcuni casi dipartimenti con una performance Vqr di alto livello sono stati valutati in Ava peggio di dipartimenti i cui risultati Vqr erano drasticamente inferiori, proprio a causa dell’incompletezza delle procedure interne (che, evidentemente, non determinano univocamente la performance...).

Chi deve intervenire? Devono agire in sintonia Miur e Anvur e vi sono resistenze al cambiamento in entrambi gli attori, come ho potuto verificare in prima persona nel mio ruolo di componente del consiglio direttivo dell’agenzia. Siamo oggi prossimi al completamento del primo ciclo di accreditamento degli atenei italiani: non è perciò più differibile una profonda revisione delle procedure Ava. Sono state recentemente approvate le modalità per l’accreditamento di alcuni atenei particolari, le Scuole superiori ad ordinamento speciale: queste procedure mostrano che si può accreditare un ateneo guardando alla sua effettiva performance, anche in Italia.

Secondo caposaldo: la Vqr, destinata a valutare la qualità della ricerca degli atenei con cadenza quinquennale. Data la dimensione del sistema universitario, il numero dei risultati da valutare è molto grande (milioni nel quinquennio): è quindi inevitabile ricorrere a un campionamento. Nel campionare bisogna però tener conto delle specificità delle diverse aree disciplinari. In alcuni campi i ricercatori pubblicano in grandi gruppi (arriviamo a migliaia di coautori in una singola pubblicazione scientifica) e producono centinaia di lavori nel quinquennio; in altri campi, ricercatori in piccoli gruppi o individualmente perseguono progetti che portano ad alcune unità di risultati nello stesso periodo. Fino a oggi, a ogni ricercatore è stato richiesto di fornire lo stesso numero di “prodotti” (pubblicazioni scientifiche, come nell’esempio, ma anche brevetti, progetti o altro a seconda della disciplina). Un tale campionamento è ovviamente distorsivo. Non sorprende che in alcuni settori si trovino solo “prodotti” di alta qualità (selezionando tra diverse centinaia è agevole trovare uno-due lavori di alto livello rispetto la media...); il risultato è che tutto un settore appare artificialmente eccellente. Nulla di cui gioire, le vere eccellenze sono così indistinguibili e il meccanismo premiale si inceppa.

Un’ultima considerazione: Vqr deve valutare la qualità della ricerca dell’ateneo, non degli individui. Non è allora limitativo guardare agli atenei solo come somma del lavoro dei singoli? Dobbiamo considerare anche la capacità di visione, di scelta degli atenei. Ulteriori correttivi alle procedure vigenti devono essere introdotti anche su altri aspetti, ma qui questo richiederebbe troppo spazio (come si decide il valore scientifico dei singoli risultati, la bontà delle scelte degli atenei su reclutamento e utilizzo delle risorse ministeriali...).

Questi aggiornamenti sono urgenti perché, per legge, in pochi mesi sarà avviato un nuovo ciclo di Vqr e sulla base di questo saranno distribuiti i fondi premiali agli atenei per un quinquennio. In chiusura è inevitabile menzionare un’altra questione collegata e altrettanto attuale: la definizione dei compiti della nascenda Agenzia nazionale per la ricerca. Bisogna evitare che la sua istituzione ingarbugli l’architettura valutativa fissata dalla legislazione vigente: il mandato della consorella francese è un utile esempio da emulare con il suo esplicito ed esclusivo accento sulla selezione e finanziamento dei progetti strategici di ricerca.

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