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Cupa radiografia dell’Italia

di Renato Palazzi

Una scena di «Ritratto di una nazione» che ricalca il quadro «Quarto stato» di Giuseppe Pellizza da Volpedo

3' di lettura

Col Ritratto di una capitale, un progetto drammaturgico in cui ventiquattro autori erano chiamati a raccontare, ciascuno a suo modo, una giornata della città, il Teatro di Roma tre anni fa aveva sostanzialmente centrato l’obiettivo: la qualità dei testi aveva alti e bassi, ma il loro accostamento riusciva a descrivere uno scorcio storico delicato, tratteggiando una comunità incerta, smarrita, tesa a interrogarsi sulla propria identità. Più che specifiche situazioni, captava umori sparsi nell’aria.

Passare ora, con la stessa formula, dal ritratto di una città a quello di una nazione è impresa assai più ardua, e decisamente più ambiziosa. A incidere non è solo una questione di proporzioni, l’assunzione di un orizzonte più ampio. Raffigurare un Paese nelle sue mille contraddizioni vuol dire anche, a mio avviso, conferire ai singoli episodi un risalto metaforico: ed è proprio ciò che non avviene sempre nei nove testi che compongono la prima tranche del Ritratto di una nazione. Il percorso è ancora in fieri, soggetto a modifiche e assestamenti. Ci si può chiedere, però, fin da ora se la scelta di invitare i venti autori – uno per ogni regione – a focalizzare il proprio sguardo sul problema cruciale del lavoro non abbia avuto un effetto limitante: la disoccupazione, le morti bianche sono ferite aperte nella nostra vita collettiva, ma l’Italia di oggi è fatta anche di no-vax, di food blogger, di tutela o devastazione del paesaggio, e tutto ciò non trova spazio in questo quadro. Coraggiosamente la maggior parte degli autori punta alla denuncia di vicende in cui l’avidità e la corruzione determinano un inquinamento industriale che gli operai e la popolazione pagano con malattie mortali. Il nostro presente è ovviamente anche questo, il conflitto tra difesa della salute e diritto al lavoro, ma in questo caso si rischia un andamento monotematico: più che un ritratto, ne viene fuori una TAC dell’Italia attuale, e il responso che dà è uniformemente fin troppo cupo.

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Dopo un prologo di Elfriede Jelinek - aggrovigliata e geniale come sempre - detto da Maddalena Crippa, molti dei testi proposti non oltrepassano il mero dato di cronaca: il pugliese Alessandro Leogrande intreccia le sorti di un operaio dell’ILVA e di un bracciante polacco coi ricordi sindacali di Giuseppe Di Vittorio. Wu Ming 2 e Ivan Brentari mostrano due operai della Breda che negli anni Sessanta avevano sognato l’autogestione, cui lo spettro di Yuri Gagarin riferisce delle lotte attuali alla General Electric. Michela Murgia disegna per la brava Arianna Scommegna la figura dell’addetta alle pulizie di una base americana in Sardegna, non rassegnata all’idea che nel luogo circolino sostanze dannose. Ulderico Pesce racconta con veemenza di una grave perdita che si verifica in un impianto dell’ENI in Basilicata. Più interessante l’approccio di Marta Cuscunà, che dà voce a una signora impegnata contro i bengalesi che giocano a crickett nel parco, o di Marco Martinelli, che fa dialogare le statue di Peppone e Don Camillo sulle infiltrazioni mafiose nel comune di Brescello. Vitaliano Trevisan – con un irresistibile Giuseppe Battiston – si inventa stralunati traffici di droga, zucchero a velo per pandori e candele destinate all’Ucraina. Renato Gabrielli evoca uno pseudo-Berlusconi non redento dai servizi sociali, che crea un movimento di ragazzi disoccupati dandogli l’emblematico nome di “Giovinezza”. Nell’impegnativa maratona, che ha la regia unificante di Fabrizio Arcuri e il coordinamento drammaturgico di Roberto Scarpetti, spicca soprattutto il ritorno alla scena di Davide Enia: il suo monologo sul sub che salva i migranti dimostra ancora un’intatta potenza espressiva.

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