D’Alì, il potere a disposizione dei boss di Cosa nostra da Matteo Messina Denaro a Totò Riina
Depositate le motivazioni della condanna definitiva a sei anni per l’ex senatore di Forza Italia e sottosegretario all’Interno per concorso esterno in associazione mafiosa
di Patrizia Maciocchi
2' di lettura
L’ex senatore di Forza Italia Antonio d’Alì per decenni ha messo a disposizione di Cosa nostra e dei suoi esponenti di spicco come Totò Riina e Matteo Messina Denaro, le sue energie personali, le sue attività imprenditoriali e le proprie elevate funzioni pubbliche. Con queste motivazioni la Corte di cassazione, ha reso definitiva la condanna a sei anni di carcere - disposta nel processo bis di appello, il 13 dicembre scorso - nei confronti di d’Alì, per concorso esterno in associazione mafiosa. La Suprema corte in 24 pagine ricostruisce i rapporti dell’ex senatore e sottosegretario del ministero dell’Interno con i più pericolosi esponenti della mafia. Per i giudici d’Alì stretto con Cosa nostra un patto politico-mafioso grazie al quale il clan gli ha garantito un appoggio elettorale che ha aperto la strada al suo ingresso in Senato. Elezione che ha poi costituito il viatico per l’acquisizione dell’incarico di Sottosegretario al ministero dell’Interno.
L’aiuto di Cosa nostra
Ad avviso della Cassazione regge l’ordito della sentenza dell’appello bis secondo la quale le fortune politiche di D’Alì, sono state, in parte, costruite grazie allo scellerato accordo con la mafia. Il politico ha messo sul piatto le sue energie personali, come avvenuto nella vicenda del fondo Zangara, relativa all’accusa di aver ceduto i terreni - che la famiglia D'Alì possedeva in contrada Zangara a Castelvetrano - a Francesco Geraci, prestanome di Salvatore Riina, su espresso mandato di Matteo Messina Denaro, il cui padre, per un incrocio di destini, era il custode dei terreni della famiglia dell’ex senatore.
L’asservimento del potere al clan
Nel mirino degli inquirenti erano finito anche l’asservimento delle attività imprenditoriali, con la banca Sicula, anche questa fondata dalla famiglia d’Alì, nella quale sarebbe stato riciclato il denaro della mafia. Un baratto - ricordano i giudici -che ha comportato anche il trasferimento di un prefetto «dopo averlo minacciato per compiacere i piani di egemonia economica del capomafia di Trapani (Vincenzo Virga, ndr) ». Nel curriculum di d’Alì anche l’impegno, in favore di Cosa nostra, per far fallire il tentativo delle istituzioni di salvare la Calcestruzzi Ericina. E proprio in questo contesto si inquadra il trasferimento del prefetto Sodano, il cui operato danneggiava gli interessi del clan
Un appoggio ventennale
Per i giudici D’Alì si candidò al Senato con l’appoggio della mafia, in virtù di una disponibilità che il sodalizio aveva già avuto modo di apprezzare nell’arco di un ventennio. Non c’è dunque ragione - aveva concluso la Corte d’Appello in sede di rinvio - di ritenere che la stessa “benevolenza” l’ex senatore non l’abbia dimostrata dal 2001 fino al 2006, anno che consente di far rientrare le condotte nella nuova legge sulla prescrizione, datata 2005, che consente di spostare addirittura al 2032 la data che avrebbe consentito all’imputato di chiudere i conti con la giustizia. A pesare nel processo, tra le molte testimonianze, anche quella del pentito Vincenzo Sinacori che aveva rivelato il legame tra Messina Denaro e l’ex senatore «che io sappia il Virga, se aveva bisogno di qualcosa dai D’Alì - aveva detto Sinacori - si rivolgeva ai Messina Denaro perché era risaputo che i Messina Denaro con i D’Alì erano in buonissimi rapporti».
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