sviluppo

Da abbattere o riconvertire. La scelta del Veneto sui capannoni vuoti

di Katy Mandurino

4' di lettura

Sono come una miriade di coriandoli sparsi su un territorio già altamente urbanizzato. Il più urbanizzato d’Italia, assieme alla Lombardia. Il Veneto conta più di 92mila capannoni industriali, situati in 5.679 aree produttive (per 41.300 ettari di terreno) che occupano il 18,4% della superficie consumata. Significa che in regione - circa 5 milioni di persone - esiste un capannone ogni 54 abitanti. Non tutti sono operativi, però; una delle conseguenze della crisi è stato l’alto numero di capannoni dismessi e inutilizzati.

Una recente indagine di Confartigianato Veneto, realizzata in collaborazione con la Regione e con l’università Iuav, ha rilevato, incrociando i dati statistici dei Piani di assetto del territorio, i dati catastali e i dati forniti da Google street view, che i capannoni dismessi in regione sono ben 11mila, il 12% del totale, e che, di questi 11mila, il 57% è costituito da strutture riutilizzabili, circa 6mila. Per il 43%, invece, si tratta di capannoni troppo vecchi e irrecuperabili, quindi da rottamare o demolire (si parla di circa 4.570 unità).

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È un patrimonio industriale dal valore consistente: sulla carta, i capannoni dismessi corrispondono a 3,9 miliardi di risorse inutilizzate, cifra che sale a 7,9 miliardi se si calcola l’indotto derivante dalla riqualificazione delle strutture. Ma qual è la direzione che deve prendere la riqualificazione? Sull’argomento già da mesi si è aperto in Veneto un dibattito che ha portato e sta portando i primi frutti. Tra le destinazioni industriali sta prendendo sempre più piede quella della logistica.

La domanda si è spostata dal commerciale a strutture di stoccaggio per attività produttive; succede ad esempio nell’area della pedemontana trevigiana e nella provincia friulana di Pordenone, in particolare per molte aziende del mobile che lavorano come subfornitrici di grandi brand come Ikea. La domanda di manufatti produttivi è però ora di taglio grandissimo, non più medio-piccolo, dimensione che caratterizza la maggior parte dei capannoni dismessi. È una richiesta, in crescita, che si focalizza lungo le grandi arterie infrastrutturali; solo nell’ultimo anno si è assistito alla realizzazione di un maxi hub nel Veronese per il gruppo logistico Number 1 e di un centro distributivo di Amazon a Vigonza, in provincia di Padova, all’annuncio di un mega-polo del marchio della Gdo Despar tra Padova e Rovigo e alla riconversione in spazi logistici per Msc degli stabilimenti ex Wärtsilä a Trieste, per spostarsi più a est.

Ma se la logistica può salvare, almeno in parte, i capannoni dismessi, per riportare a valore le strutture si sta agendo anche sul fronte culturale e normativo.

La Regione Veneto ha approvato pochi mesi fa una legge innovativa (la 14/2017) che all’articolo 8 prevede l’utilizzo temporaneo del capannone per uso diverso rispetto alla destinazione primaria, senza dover fare varianti urbanistiche. L’uso temporaneo, in accordo con il Comune dove insiste il fabbricato, che si limita a controllare l’assenza di abusi, può avere una durata dai 3 ai 5 anni e può ospitare centri ricreativi, spazi di co-working, sale da ballo, centri per l’ippoterapia, scuole private e molto altro. A San Donà di Piave, in provincia di Venezia, è stato fatto un contratto test tra Comune e privati per sperimentare la norma. «Il Veneto è apripista in questo senso - spiega l’avvocato Bruno Barel, esperto di diritto internazionale ed europeo, amministrativo, urbanistico, immobiliare e civile, che ha contribuito alla stesura del testo normativo -. Ma non ci sono solo i capannoni riutilizzabili, ci sono anche molte realtà non manutenute, cadenti, destinate a non poter essere riconvertite». «Per queste - continua Barel - ci sono altre soluzioni, come le demolizioni; è necessario però superare la barriera psicologica di chi è convinto che tanto volume corrisponda a tanto valore. In realtà corrisponde solo a tanti costi, di tasse e di manutenzione».

In questo senso è ancora la Regione a dare un aiuto, con l’incentivazione alla demolizione: per il 2018 il Veneto mette a disposizione 200mila euro in un fondo di co-finanziamento nel caso di distruzione di un fabbricato. Mentre sono allo studio bandi pubblici e una sorta di inventario di chi offre spazi e di chi li cerca, per far incontrare domanda e offerta. Una terza via di riqualificazione è rappresentata dai crediti edilizi, che consentono, all’interno dello stesso comune, la mobilità orizzontale della volumetria, cioè lo spostamento di cubatura demolita.

«Oggi la normativa ci favorisce - dice da Unindustria Treviso Giuseppe Bincoletto, vicepresidente dell’associazione, tra le più attive sul territorio in questo senso -, ma è necessario far capire che avere un capannone significa avere un valore anche con una destinazione diversa o demolendolo. In questo senso Unindustria Treviso sta portando avanti una serie di progetti sul territorio». Primo fra tutti, la riqualificazione del quartiere Fiera, a Treviso, che prevede anche la ridestinazione di fabbricati De’ Longhi e Zorzi. O il progetto, partito proprio da Unindustria, che coinvolge i comuni di Pieve di Soligo e Sernaglia della Battaglia per una diversa destinazione d’uso di 1,3 milioni di metri quadri di area industriale nella zona del Piave. O, ancora, il ripensamento dell’area industriale di Conegliano e Vittorio Veneto, dove il consumo di suolo arriva al 25% del totale.

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