leggende dello sport

Da Alessandria al top del calcio italiano: Gianni Rivera e il suo tempo indimenticabile

In un libro la storia dell’uomo e del fenomeno Rivera, partendo dalla sua città natale, passando per la Milano del boom economico, fino ai grandi successi sportivi e alla consacrazione come capitano del Milan e simbolo del calcio italiano

di Giulio Peroni

(Vittorio La Verde / AGF)

4' di lettura

Gianni Rivera, il campione che non ha la faccia da campione. E nemmeno le gambe, il temperamento. Così gracile, impresentabile nella battaglia di un'arena, che Gianni Brera, archetipo del giornalista-letterario che dal proprio pulpito, ai quei tempi, condizionava tecniche, tattiche e scuole di pensiero, inizialmente definì “Abatino”.

L'anti-atleta. Un giocatore troppo elegante per essere vero. Poco metrico per trasformare prosa in poesia. Si ricredette. Perché lui, Gianni Rivera da Alessandria, nato il 18 agosto 1943, simbolo pallonaro della rinascita italiana, della grandeur milanese degli anni 60/70, è stato il più grande numero 10 della storia del calcio italiano.

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I muscoli suoi non volteggiavano nelle gambe. Ma li aveva nella testa, nell'ispirazione. Erano muscoli da capitano. In un profilo, il suo, così strano per un calciatore. Così asimmetrico con la sua città adottiva (Milano), dinamica ed ordinata, ma controcorrentista, scanzonata più di lui.

Pensare a Rivera come semplice campione di un'epoca peraltro d'oro del football nostrano, è un errore sociologico, un fraintendimento della storia intensa ed iconica di quegli anni, quando Milano era la capitale industriale del Paese, sospesa tra operai sul piede di guerra e studenti arrabbiati.

Il capoluogo lombardo, allora, cresceva a dismisura. Lo faceva attraverso le proprie contrapposizioni. C'erano Vincenzina e la Fabbrica (Enzo Jannacci), i primi grandi imprenditori, e soprattutto i maestri dell'intelletto. Scrittori, giornalisti, registi del boom. Tutti orgogliosamente “cazzari”, profeti della cultura al servizio del cazzeggio. E viceversa.

Lui, il Nostro, era invece l'esatto contrario. Nel rettangolo del campo di calcio, nella piattaforma dell'effimero che mette d'accordo tutti. Rivera, di quel circo inspiegabile e trasversale, era qualcosa di singolare. Era l'ispiratore serio, saggio da matti e da stridere, nella divisa, quella convenzionale, del “bravo ma basta” del giocatore di calcio.

Gianni Rivera, con il suo understatment piemontese, è stato, è il Milan del popolo ancora al potere. Per tutti, il Golden Boy. Nella Milano dell'Innocenti a Lambrate, del suo pallone d'oro (primo italiano) nel 1969, nella città visibile solo con la nebbia, della mala in musica della Vanoni, delle Luci a San Siro di Vecchioni. Quando tutto andava svelto, ma nessuno di corsa. Tranne quei ragazzi. Che per vedere lui, Mazzola e Facchetti la domenica dopo, correvano come matti su per la rampa di San Siro a prendere posto ai “Popolari”.

Di Rivera si è detto, scritto molto. Forse non abbastanza. Ecco allora “Dal grigio alla stella. Gianni Rivera. Alessandria, Milano e il suo mondo”, opera di Mimma Caligaris e Bruno Barba (edizioni Rogas). Una ricostruzione storica e sociologica dell'uomo, del fenomeno Rivera. Partendo dalla sua Alessandria, città distaccata, timida, introversa, scostante, appena uscita dalla guerra con ferite profonde. E poi l'arrivo sotto la Madonnina, nella “booming Milan”, come dicono gli americani. «Dove- ricorda il libro, nel 1961 abitano già in un milione e 600 mila persone. Dove è concentrato un quarto del capitale italiano, si pagano il 26% delle tasse italiane. E le imprese – Montecatini, Pirelli, Falk, Marelli, Breda, Alfa Romeo, Guzzi, Gilera, Carlo Erba – danno lavoro a 800 mila persone, e pare che in città non vi sia un disoccupato».

L'opera si alimenta, con non dichiarata nostalgia, sulle personalità che accompagnano Rivera nel suo lungo cammino, da Nereo Rocco ad Edmondo Fabbri, fino ad arrivare all'ultimo atto del campione: la vittoria del decimo scudetto (quello della stella) del Milan, 6 maggio 1979. Con Gianni prima dell'inizio della partita in mezzo al campo, microfono in mano, ad invitare i tifosi a non stazionare nell'anello pericolante.

Nel libro si mischiano eventi, rapporti umani. Quelli decisivi, quelli dell'evoluzione del ragazzo d'oro. «Cosa ricordo della mia gioventù? Che non sono mai stato giovane», disse un giorno Rivera a Gianni Mura. E così il “mai giovane”, esordio in serie A a 15 anni con la maglia dell'Alessandria, con quella rossonera ha vinto due coppe Campioni, una Intercontinentale, tre scudetti, un campionato Europeo (1968) e un secondo posto ai Mondiali 1970 con quella azzurra della Nazionale. Nella memoria il suo quarto gol nei supplementari della semifinale mondiale contro la Germania (4-3) all'Atzeca di Città del Messico (17 giugno 1970), l'inefficace ma politically correct staffetta con Sandro Mazzola, ma anche i 7' giocati nella finale persa contro il Brasile.

Rivera in campo indirizzava la sfera, i destini. Il suo calcio artistico, efficace, era prima giocato, poi pensato. I suoi filtranti passavano dove non c'era spazio, dove era inimmaginabile infilarsi. «La palla è schiava dei suoi piedi sapienti: vi si accuccia come una cagna in amore», disse poi di lui Gianni Brera. A San Siro la magia aveva il colore dell'empatia. Gianni fuori dal campo parlava garbato, orgoglioso, tagliente il giusto. Tanto per assomigliare un poco a Beppe Viola, suo amico, forse principale narratore delle sue gesta, di quei tempi irriverenti, verticali.

Un pomeriggio di dicembre del 1978, in mezzo alla gente, gli fece una memorabile intervista sullo stracolmo tram 15, che da piazzale Baracca portava a San Siro. Pensando a Rivera, che stava per dire addio al calcio, ad Alda Merini, poetessa di un tempo che non tornerà: «Milano benedetta. Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle. Quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo. Perché lì c'è verità».

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