il potere delle piattaforme

Da Amazon a Facebook, quando gli utili schiacciano gli scandali

di Alberto Magnani

Facebook chiude trimestre sopra le previsioni

3' di lettura

Negli ultimi anni, ci sono poche aziende che siano state esposte al fuoco mediatico come Google, Facebook e Amazon. Nell'ultimo trimestre fiscale, e in quelli precedenti, ci sono pochi gruppi che vantino le loro stesse performance: 9,4 miliardi di dollari di utili per Alphabet, la holding che controlla Google; 4,9 miliardi di profitti per Facebook; raddoppio degli utili a 1,6 miliardi per Amazon, accompagnato da un balzo del 42% nel fatturato (oggi a 51 miliardi).

Quasi a dire che gli scandali che hanno travolto tutti e tre, in momenti diversi, sono scivolati senza lasciare traccia sul bilancio. C'è chi fa notare che è presto per contabilizzare gli effetti di alcune bufere, in primis il datagate di Facebook. Ma lo scollamento totale fra danni d'immagine e risultati aziendali potrebbe rivelare un altro aspetto, forse ovvio tra gli addetti ai lavori: l’inflazionatissima web reputation, la reputazione online, non esiste. O meglio, esiste, ma non ha nulla a che spartire con l'idea di un'equazione esatta fra la qualità delle notizie a proprio riguardo e le reazioni degli investitori (e degli utenti) in proposito.

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Se una consegna a domicilio vale più delle morti bianche
Solo Amazon, per citare l'ultima azienda a chiudere la trimestrale, è finita sul banco degli imputati per una serie di controversie che vanno dall'elusione fiscale in Europa alle condizioni di lavoro dei suoi dipendenti. Il National council for occupational safety and health, un consiglio che si occupa di sicurezza sui luoghi di lavoro, ha eletto Amazon nella «sporca dozzina» delle aziende che offrono le condizioni di lavoro più critiche ai propri impiegati, con un totale di sette (7) morti bianche negli ultimi cinque anni. Eppure utenti, ricavi e capitalizzazione di mercato del gruppo non fanno altro che lievitare: oggi le azioni di Amazon sono vendute a più di 1.500 dollari e hanno chiuso la seduta di ieri in rialzo del 4%. Il paradosso non è neppure tale, almeno agli occhi degli esperti di settore. La reputazione non è un blocco unico ma dipende dagli interessi in ballo.

Un utente può scandalizzarsi per le condizioni di lavoro nella filiera dell'e-commerce, ma raramente è disposto a rinunciare alle comodità di un prodotto consegnato a casa in tempi rapidi e alla metà del prezzo. La ferita alla reputazione etica non ricade, necessariamente, sull'unica reputazione che tocca nel vivo un utente: la qualità del servizio. La carriera di un medico può essere stroncata da un errore in sala operatoria. Quella di un colosso sopravvive alle indagini dell'antitrust, se continua a soddisfare le aspettative di chi clicca dall’altro lato dello schermo. «Se TripAdvisor dice che un ristorante è sgradevole, gli utenti si fidano e non ci vanno. Ma se scopriamo che Google evade le tasse, continuiamo ad usarlo perché è più comodo» spiega Andrea Barchiesi di Reputation Manager, un'azienda che si occupa di analisi della reputazione dei marchi.

Dal danno di immagine al danno finanziario
Comunque, aggiunge Barchiesi, anche «l'asse etico» della reputazione può travolgere tutto il resto. Magari a scoppio ritardato e senza pregiudicare fino in fondo la redditività dell'azienda in bilico, ma gli effetti di uno scandalo prima o poi chiedono il conto. Spesso sotto forma di una maggiore sensibilità mediatica o di una risposta delle istituzioni. Da un lato ci sono casi come quello di Volkswagen, il colosso tedesco dell'auto travolto dal dieselgate: l'azienda è in piena salute (vendite da 230 miliardi di euro nel 2017), ma soffre ancora delle ombre di immagine provocate dalle manipolazioni dei test sulle emissioni delle proprie vetture. «Quando è emerso il caso dell'utilizzo di cavie umane, si trattava di una non-notizia perché lo fanno dagli anni '70 - dice Barchiesi - Eppure il fatto è esploso subito, perché dopo il dieselgate si è creata maggiore attenzione».

Dall'altro, una sequenza di abusi finisce per attirare l'attenzione dei regolatori. Favorendo strette che obbligano anche i colossi ad adattarsi alle nuove regole, senza potersi appigliare alla «centralità del consumatore» e agli altri refrain pubblicitari a giustificazione del proprio operato. L'esempio più recente è la Gdpr, il regolamento sui dati che ha costretto multinazionali come le “solite” Facebook e Google a rivedere i propri termini di servizio. La pena, nel vero senso del termine, è una sanzione pari al 4% del proprio turnover annuo in caso di infrazioni. Forse all'utente non interesserà sapere quante tasse paga un social network californiano all'erario italiano. Ma a Bruxelles, a quanto pare, sì.

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