Da Armani a Versace, la creatività italiana diventa concretezza
di Angelo Flaccavento
3' di lettura
Esiste ancora una identità italiana della moda? Esiste, certamente, ma più che un codice estetico è un modo di fare le cose. La breve kermesse della moda uomo che si è aperta venerdì sera a Milano ne è prova lampante: parla di una identità italiana divisa tra saper fare e urgenza di puro comunicare.
Giorgio Armani, da Emporio Armani, è pragmatico: si concentra sul prodotto, perché è nel prodotto che sta il messaggio, che questa stagione parla di leggerezza, di dinamismo, con un rinnovato spirito di sintesi. Che da Emporio si respiri aria nuova è evidente fin da subito. La passerella, nel familiare teatro di via Bergognone, è quadrata e spaziosa; i modelli passano così vicini al pubblico che quasi li si può toccare, e l’effetto è caldo, umano, avvolgente. Sono avvolgenti anche gli abiti, con le giacche decostruite che si plasmano sul busto, le camicie con l’orlo a coulisse come felpe e i pantaloni che si gonfiano indossati con le ugly sneaker d’ordinanza, e tutto stropicciato, metallizzato, vivo e vissuto.
Anche il Re, poi, fa comunicazione, ma con il cuore: lo show si conclude orgogliosamente con la nota patriottica della parata, intorno ad una proiezione del tricolore, di un gruppo di atleti della squadra olimpica e paraolimpica, vestiti con la tuta blu firmata EA7 che sarà la loro uniforme per i Giochi di Tokyo del 2020. Poca fanfara, solo sostanza, perché Armani è uomo di fatti.
Da Ermenegildo Zegna Couture il direttore creativo Alessandro Sartori piega la tradizione, con piglio visionario e grande abilità tecnica, alle esigenze del contemporaneo – e questo include non solo il pragmatismo e la facilità delle forme, ma anche la qualità della materia – lavorando in maniera totale intorno all’idea di usare l’esistente, creando il nuovo da ciò che c’è già.
Lo slogan è Use The Existing, e informa tutto, dalla scelta delle ex acciaierie Falck come teatro dello show – una terra desolata in via di riqualificazione – ai tessuti di lana realizzati attraverso l’assemblaggio e ritessitura di scarti tessili e quelli di poliestere fatti con le bottiglie, alle stampe geometriche che sono foto di scampoli di stoffa. Il percorso si sintetizza in silhouette nette e leggere, celebrazione di una sartorialità che parla alle generazioni di oggi, globali e connesse, senza enfasi ma con molta chiarezza. Il problema ambientale è condiviso, ma nessuno utilizza il termine sostenibilità – vuoto, abusato e di difficile applicazione. Si sollevano interrogativi, ma non si danno risposte – forse non ce ne sono.
L’istrionico Francesco Risso, da Marni, manda in scena il bizzarro matrimonio tra Truman Capote e Ernesto Che Guevara. Si legga: una fusione tropicale di abiti appropriati e militarismi psichedelici, conditi di accessori assurdi fatti con immondizie e scarti –sotto un tetto di bottiglie di plastica, opera dell’artista Judith Hopf – che pare un tratto di mare inquinato. Lo spettacolo c’è, ma il messaggio non arriva del tutto perché avvolto da un caos creativo che è certamente la sigla di Francesco Risso, ma che non sempre è facile da decrittare.
Per Stella McCartney la sostenibilità è un mantra aziendale cui non è possibile sfuggire, condensato in un guardaroba molto green di capi veri e quotidiani, con giusto una torsione di garbata irriverenza.
Della nuova generazione che si affaccia sulla scena, illuminata da riflettori inesorabili ora che il calendario dimagrisce di big, Dorian Tarantini è uno dei talenti più interessanti. Il suo progetto M1992, piccolo ma identitario, nasce dalla ossessione personale e ad ampio raggio per le sottoculture vestimentarie. A questo giro Tarantini presenta un’orda di “fighetti” digitali che non rinunciano alla cravatta nemmeno con il chiodo, e che sono ossessionati dalla fama, promuovendo una idea di ribellione all’inverso – formale e perversa, invece che anarchica – che è davvero stimolante.
Sulla stessa linea di pensiero, suppergiù, è Donatella Versace, che dedica la collezione al compianto Keith Flint, leader dei Prodigy, proponendo punk incravattati e ingiacchettati che lasciano presto la scena a lucertole setose in completo da lounge club, perdendo purtroppo di coerenza.
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