Da Braida un Grignolino riserva, nel segno dell’innovazione
di Alberto Annicchiarico
4' di lettura
Il Grignolino è “il più rosso dei vini bianchi ed il più bianco dei vini rossi”, secondo una celebre frase attribuita a Luigi Veronelli. Ed è la dimostrazione che un grande vino non deve per forza essere molto “colorato”, alcolico e strutturato. Se poi ne esalti la delicatezza floreale della rosa e la succosità della frutta rossa facendogli accompagnare uno strepitoso flan di cardo gobbo puoi restare piacevolmente sorpreso: proprio nel regno della Barbera d'Asti, ecco un vino poco glamour che invece conquista. Succede da Braida a Rocchetta Tanaro, sotto la guida sapiente di Raffaella e Beppe Bologna, terza generazione di una famiglia piemontese che ha legato il suo nome, indissolubilmente, alla storia dei vitigni autoctoni del Monferrato, con il marchio Braida. Storia sì ma con uno spiccato senso dell'innovazione. Tradizione giocando in attacco.
«È dai tempi di Leopoldo Incisa della Rocchetta che in queste terre si sperimentano i vitigni internazionali - puntualizza Raffaella -: noi con Il Bacialé “maritiamo” dal 1994 alla Barbera, grande amore di famiglia, Pinot Nero, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot. Accanto a questo, l'attenzione per gli autoctoni resta un preciso impegno, senza rinunciare a innovare». Ed ecco, proprio per farsi capire, che la ricerca equilibrata della novità e la sfida ai trend globali passa per un progetto di Grignolino riserva oppure per un'idea differente e originale di Barbera, il Montebruna. Frutto, quest'ultimo, dei terreni che i Bologna hanno riacquistato con un paziente lavoro e che prima di essere frazionati erano appartenuti ai marchesi Incisa della Rocchetta, quelli che “colonizzando” la Maremma nel Dopoguerra hanno dato vita al Sassicaia, giudicato di recente, nella sua annata 2015, miglior vino del mondo dal Wine Spectator. La parentela territoriale con il Nobel enoico inorgoglisce Beppe Bologna, per chi scrive “il druido”, o per restare sul tecnico, l'enologo della casa, che studia e affina da diversi lustri la produzione di Braida. “Montebruna - avvisa Beppe - darà il meglio fra dieci anni”. Con il vino, si sa, la pazienza ha la sua importanza.
Perché il goal, in fin dei conti, non è diverso da quello sognato e poi messo a segno dai fondatori di una cantina famosa per vini già glorificati come il Bricco dell'Uccellone. In primis il nonno, Giuseppe Bologna, che si guadagnò il soprannome “Braida” su piazze e sagrati giocando la domenica a pallone elastico. Poi venne il turno di Giacomo Bologna, che ereditò dal padre vigna e soprannome, ma soprattutto l'amore infinito per la terra e per il vino.
Fratello minore di Giacomo è Carlo Bologna, patron della trattoria di famiglia “I Bologna” dove gli chef sono la moglie Mariuccia e il figlio Beppe; da non confondere con la trattoria “I Bologna” a Wakayama, nelle vicinanze di Osaka, in Giappone: un clone nato sette anni fa dell'innamoramento della proprietà dell'azienda Shima Seiki - famoso produttore di macchine computerizzate per maglieria - per una cucina e i grandi vini dei Bologna.
È stato Giacomo Bologna a immaginare e mettere in pratica - nei primi anni Sessanta - una rivoluzione: togliere la nomea di vino da osteria alla Barbera, puntando sulla purezza e sulla qualità e, a partire dagli anni Ottanta, affinandola nelle barrique (Braida ne ha mille, costo fra i 700 e gli 800 euro l'una, durata 5 anni, tutte in rovere francese realizzate dal signor barrique Eugenio Gamba, a Castell'Alfero).
Quella dell'invecchiamento in barrique era una pratica semi sconosciuta, ai tempi, in Italia ed oggi è diventata routine. Raffaella e Beppe, entrambi enologi (ma lui è l’amministratore delegato, lei è soprattutto la donna della diplomazia e del marketing), rappresentano, come si diceva, la terza generazione dell'azienda nata cinquantasette anni fa a 16 chilometri da Asti. E sono uniti dalla convinzione granitica, coltivata con entusiasmo e dedizione, di far proseguire la marcia della Barbera verso la conquista di uno status di nobiltà, visto che sulla qualità ci sono pochi dubbi, che sembra ancor oggi essere riservata ad altri vitigni.
Un lavoro che sa di evangelizzazione, in tempi in cui a New York vanno di moda le corazzate Barolo e Barbaresco. Che parte già dalla vigna, dove si formano i “preparatori d'uva” del futuro con la scuola di potatura di Simonit e Sirch e che passa per una intensa relazione, attraverso stage e seminari, con le vicine scuole di cucina, da quella internazionale di Costigliole d'Asti all'Università di Pollenzo, il più costoso ateneo d'Italia, con le rette che superano i diecimila euro (la Bocconi è ad una incollatura), nato nel 2004 grazie a Slow Food.
Esportare cultura del gusto e conoscenza paga. E si traduce nel fare numeri di tutto rispetto. Settecentomila bottiglie all'anno e 6 milioni di fatturato grazie ai 50 ettari di superficie a vigneto. La metà della produzione va all'estero: Stati Uniti, molta Svizzera, ma anche Germania, Svezia e Norvegia sono mercati di riferimento. Il prodotto più conosciuto è quello di punta, il celebre Bricco dell'Uccellone, poi ci sono anche Ai Suma, La Monella e tanti altri. Fra questi il Limonte, che non è Barbera ma Grignolino. E qui si torna al principio del discorso.
«Nonostante la giovanissima età del vigneto - racconta Beppe Bologna - questo vino esprime carattere ed eleganza veramente fuori dal comune. Ecco perché ho avuto, finalmente, la possibilità di provare, come si faceva già molti anni fa per le riserve dedicate alla grande nobiltà piemontese, ad invecchiarlo in botte grande». Prodotta dal 2015 ad oggi in tremila esemplari, questa riserva è ancora in affinamento in bottiglia in attesa della presentazione. «Nel 2020, forse, saremo pronti». Perché con il vino, si sa, la pazienza conta.
loading...