ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùSfilate di Parigi

Da Dior e Saint Laurent spicca la grandiosità degli allestimenti

Le sfilate parigine oscillano tra platealità e intimismo. Fuori dagli show folle oceaniche da concerto rock

di Angelo Flaccavento

 Nero e volumi couture

3' di lettura

Le sfilate parigine di questi giorni, ultima vetrina delle collezioni donna per il prossimo autunno-inverno dopo le settimane della moda di Londra, New York e Milano, oscillano tra platealità e intimismo, tra il moloch per la creazione di contenuti e la sessione di lavoro. Le folle agli ingressi sono in ogni caso oceaniche, da concerto rock: un tiktoker, una influencer da milioni di follower, una star del k-pop coreano comunque si paleseranno, e allora meglio esserci, sembrano pensare in molti.

Al centro della passerella, da Dior, ci sta un tentacolare e pantagruelico ricamo multimaterico dell’artista portoghese Joana Vasconcelos, nota per le installazioni di forte impatto e grandi dimensioni. Maria Grazia Chiuri , direttrice creativa della maison del gruppo Lvmh,guarda a donne forti, emozionalmente intense e tormentate come Juliette Gréco, Édith Piaf, Catherine Dior, sorella del fondatore della maison, e immagina una figura femminile giusto più stropicciata del solito, vestita di gonne a ruota o a tubino, le calze maschili messe con le scarpe dai tacchi alti. Il risultato è un Dior un po’ pradesco, con una grazia speciale che è tutta e solo di Chiuri.

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Da Off-White il paesaggio è lunare: pavimento di sabbia arsa e un gigantesco globo argenteo e specchiato che moltiplica l’azione. Dopo l’avvio non esattamente a fuoco della scorsa stagione, Ib Kamara, il direttore creativo succeduto a Virgil Abloh, trova concentrazione: partendo dalle motociclette, e dai loro dettagli, immagina donne statuarie dentro abiti fascianti - che molto devono ad Azzedine Alaïa - e uomini avvolti in volumi abbondanti e molto hardware. Gli elementi da affinare sono molti, ma è un secondo avvio che funziona.

Lo show di Saint Laurent si svolge in un cubo nero, sotto chandelier traboccanti ori e luci; una trasposizione e astrazione dei saloni dell’Hotel Intercontinental, teatro di tutte le sfilate di couture del fondatore. Anche la collezione è una trasposizione e astrazione del noto. Alla ricerca di una idea di eleganza come carisma e precisione, Anthony Vaccarello riesuma gli anni ottanta di Yves, quelli delle spalle immense e dei tailleur con la gonna a matita. Lo sguardo, però, non è nostalgico ma asciutto, tagliente, sintetico. Courreges presenta in uno spazio bianco con fumo denso. Nicolas Di Felice, il giovane e capace direttore creativo che ha ridato smalto al marchio, punta su silhouette grafiche e una tensione sensuale. L’ambiente è bianco, ma non clinico per quanto rigoroso, da Chloé: metafora spaziale di una collezione che muove tra le morbidezze del passato e le durezze di una nuova identità ancora in divenire. L’equilibrio pende ancora verso una asciuttezza aspra, invero incongrua, ma a questo giro emerge una delicatezza nuova, coriacea ma palpabile. L’uso del colore, invece, rimane freddo, grafico. Il purismo angoloso e fluttuante di Shang Xia, invece, si libra proprio nell’uso idiosincratico delle tinte.

Ancora bianco, questa volta tra il galattico e il laboratoriale, da Givenchy, dove Matthew Williams guadagna un tono di espressione più naturale, meno forzato, e viene a patti con l’eredità bon ton della maison. Abbondano il nero, e i richiami ai volumi della couture. Non tutto funziona, e poco si libra, ma le stonature sono contenute.

È intimo lo show delle gemelle Olsen. Il loro The Row cresce e fiorisce in una magnifica nicchia di deprivazione come picco del privilegio, di lusso sensualmente monacale. Gli abiti sono un distillato di eleganza talare per donne che, avendo tutto, possono fare a meno quasi di tutto: cappe da viandante, cappotti perfetti, tubini intagliati, tuniche francescane. I fremiti non mancano, ma sono sottili: una piega inattesa, lunghi guanti di pelle in una nota off, un beanie con l’abito da sera. L’allestimento da Dries Van Noten è grandioso, ma il messaggio è intimo, e i vestiti li si vede da vicino, apprezzando il contrasto tra il rigore delle flanelle secche e maschili e i bagliori serici di mussole delicate e femminili.

Rick Owens, infine, sbaraglia con l’ennesima incursione nei territori del bello che oltrepassa i canoni e i limiti. La visione, sulla passerella industriale e rialzata che regala a tutto una solennità scabra, è sublime. Colpisce l’uso dei volumi gigantizzati, deliberato invece che protettivo, evidenziato dai corpi fasciati che stanno sotto le ciambelle di piumino, il movimento allungato dagli strascichi a sirena. A rendere il messaggio ancora più potente, le pettinature degne di uno scatto di Avedon. Nello iato tra il classicismo evocato e la dirompenza delle forme sta la statura di Owens, autore titanico nella sua determinazione, lontano sempre dal rumore delle tendenze e dei trucchi.

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