Da foto a logo, da simbolo a icona: il significato dell’immagine contemporanea
Da un lato, il potere di scrivere con la luce di Mario Cresci e Olivo Barbieri. Dall’altro, una stella, una conchiglia, una lettera che diventano firme, parole, storie.
di Laura Leonelli
4' di lettura
Nel 1979, tra le mura dello Studio Trisorio a Napoli, Mario Cresci realizzava una performance che aveva il pregio di riassumere in una sola immagine e in un solo gesto il senso di quel secolo e mezzo, centoquarant'anni per la precisione, che allora ci separava dall'annuncio dell'invenzione di Louis Daguerre. In quelle quattro lettere disegnate con una torcia sui muri della galleria, Cresci, artista concettuale sensibilissimo e a oggi uno dei più originali, aveva indicato il destino della fotografia, che è letteralmente scrivere con la luce, ma soprattutto “scrivere” immagini, diventare testo, discorso, lettura complessa di linguaggi che si sovrappongono, si contaminano e contaminano la realtà nella quale crescono artificialmente. Un'immagine, insomma, quella di Cresci, che potrebbe essere il logo di tutta la storia della fotografia e giustificare, nell'ambiguità propria del mezzo, quanti hanno utilizzato la foto per esaltare i loro prodotti e quanti invece hanno letto in quell'eccesso ipertestuale il segno dei tempi, il consumismo, lo spazio consumato, l'inquinamento visivo globale nel quale ci orientiamo a fatica.
Le prime insegne pubblicitarie erano comparse nel Medioevo, epoca di non lettori: una delle più longeve - basterebbe ricercarla nell'opera di Walker Evans - è la colonnina a strisce dei negozi di barba e capelli. Nel 1366 il birrificio Den Hoorn, in Belgio, aveva trasformato il suo nome in un logo, ufficialmente il più antico al mondo, e solo nel 1708 Sebastian Artois, allora proprietario, aveva aggiunto il suo cognome al simbolo del corno. La stella arrivò nel 1926, a Natale, quando gli abitanti di Leuven ricevettero in dono un'immensa partita di birra e per festeggiare l'evento ogni bottiglia recava il simbolo di un astro rosso, da allora Stella Artois. All'epoca chi passeggiava per le strade d'Europa e d'America aveva imparato a riconoscere altre “parole”, visto che logo deriva dal greco λόγος, parola, ragione, discorso. E discorrendo in una lingua che era già un esperanto dei consumi all'inizio del Novecento, ogni flâneur, ogni automobilista sapeva riconoscere, per esempio, la capasanta della Shell, disegnata nel 1904 da Marcus Samuels, importatore di kerosene e di conchiglie dall'India ai Paesi Bassi. Sempre gli stessi personaggi, e questa volta dal 1885, ricordavano che un sorso della bibita inventata da John Pemberton e battezzata Coca-Cola da Frank Mason Robinson, contabile della ditta, li avrebbe liberati dal mal di testa e da altre “nervous affections”, comprese “hysteria and melancholy”. Il carattere del logotipo a cui siamo abituati, l'elegante Spencerian, risale al 1890, mentre la scritta bianca sul fondo di un rettangolo rosso appare solo nel 1960. Nello stesso anno, per completare la dieta visiva degli americani, i fratelli Richard e Maurice McDonald, fondatori del McDonald's Famous Barbeque, avevano trasformato la “M” di famiglia nei celebri “Golden Arches”, creati dall'architetto Stanley Meston. Anche la concorrenza aveva deciso di percorrere la via della semplificazione, meta di ogni marchio ormai famoso, e nel 1962 la Pepsi aboliva le sillabe “cola” dal suo americanissimo logo blu, bianco e rosso, e nel 1969 Burger King, citato anche da Jean Baudrillard nel saggio America, mandava in esilio il sovrano seduto su un panino-trono, trasformandolo nell'essenza stessa del logo, in pratica il ripieno di “parole” tra due parentesi di carboidrati. Nello stesso anno, Ernst Haas percorreva la Route 66 e ad Albuquerque, in New Mexico, sorprendeva il trionfo cromatico e bulimico dell'economia statunitense. Piccola curiosità: nel film Due o tre cose che so di lei, del 1967, Jean-Luc Godard inquadrava lo stesso angolo del logo Mobil, a sinistra nell'immagine del fotografo Magnum (altro marchio), e lo proiettava su uno sfondo di rami. E sussurrando in fuori campo il regista francese diceva: «Perché tutti questi segni tra noi che finiscono per farmi dubitare del linguaggio e mi sommergono di significati, annegando il reale invece di liberarlo dall'immaginario?».
Anche Olivo Barbieri, artista perché ormai il ruolo di fotografo stringe terribilmente, ha provato un'eguale vertigine godardiana intuendo, primo in Europa, che alla caduta del Muro il futuro dell'immaginario occidentale sarebbe stato a Oriente. E giungendo a Pechino nel 1989, e ritornandovi ogni anno, Barbieri ha potuto seguire i mutamenti epocali che a ritmi rapidissimi hanno portato la Cina a superare il modello di sviluppo e di comunicazione a cui si era ispirata. Nel fascino contemplativo della sua fotografia, così rara e premonitrice, Olivo ha colto i passaggi da una pittura maoista e rinascimentale nella compostezza delle immagini, alla sperimentazione aberrante di nuovi materiali, fino alla qualità altissima del presente. Sul cartellone della sua prima mostra a Pechino, l'artista aveva visto dipingere accanto al suo nome il simbolo della Kodak. Pochi anni dopo, nel 1997 a Shanghai, aveva sorpreso il logo nazionale, il dragone cinese, a protezione di un vertiginoso e futuribile snodo di sopraelevate.
Ci piace pensare che anche il logo del nostro giornale si candidi a un'uguale longevità e nella ricchezza che diffonde ogni simbolo le tre lettere HTS, seguite dalla I di It e di Italy, siano non solo acronimo di how to spend, ma anche di how to see.
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