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Da Imola al trono di Ecclestone, la F1 del manager orgoglioso del suo «Paese analogico»

Il palazzo al numero 1 di St James’s Market è un moderno edificio bianco dalle forme tondeggianti: l’ingresso non è sulla via principale, ma nascosto, sul retro che ricalca il dedalo di vicoletti della Londra del passato

di Simone Filippetti

25 anni alla Ferrari. Stefano Domenicali dopo essersi laureato in Economia e Commercio a Bologna ha iniziato la sua carriera in Ferrari nel 1991, arrivando ad essere dal 2008 al 2014 Team Principal della Scuderia. Dal 2020 è presidente e ad di Formula 1 Group

6' di lettura

Il palazzo al numero 1 di St James’s Market è un moderno edificio bianco dalle forme tondeggianti: l’ingresso non è sulla via principale, ma nascosto, sul retro che ricalca il dedalo di vicoletti della Londra del passato. Dell’antico mercato generale – costruito nel 1666 dal Conte di Saint Albans vicino al mercato del fieno (che ancora oggi porta il nome, appunto, di Haymarket) e dove, un secolo dopo, il predicatore Richard Baxter si racconta fece crollare il pavimento dalla gran folla che aveva attratto – non è rimasto nulla. Ma la forza dei luoghi ha qualcosa di vischioso e atavico: oggi dentro al palazzo si fa ancora un mercato, ma diverso. Si vendono e si comprano i diritti tv dei Grand Prix. Al quinto piano, appena si apre la porta dell’ascensore chi arriva è colto di sorpresa dalla vista di una monoposto a grandezza naturale, completa di adesivi sulla carlinga “Net Zero 2030”. Dietro al bancone della reception, una parete di schermi che trasmettono immagini e dati dai Gran Premi. Il quartier generale della Formula Uno non delude le aspettative: è il paradiso delle corse.

«Sono di Imola» esordisce Stefano Domenicali, l’italiano che ha raccolto il pesante scettro di Bernie Ecclestone, l’uomo che ha inventato la Formula Uno. E uno pensa che il karma esiste. Nella città del famosissimo autodromo “Enzo Ferrari”, per più di venti anni, fino al 2006, era stato ospitato il Gran Premio di San Marino, una sorta di copertura per giustificare che l’Italia avesse due Gran Premi (quello nazionale essendo Monza). Se nasci a Imola, nel tuo destino c’è forse scritto di arrivare a guidare, in senso metaforico e pure letterale, il campionato mondiale delle corse automobilistiche.

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E Domenicali non solo lo guida, ma l’ha pure risollevato dagli scandali e lo difende dalla crociata ambientalista, figlia del fenomeno Greta: «Ci davano per morti, e invece oggi la Formula Uno è il campionato sportivo più popolare al mondo». En passant, il circo delle auto è tornato pure a Imola, dopo anni di abbandono: ora si chiama “Emilia Romagna Grand Prix”. Il merito è dell’uomo, molto socievole e diretto, che entra da una porta laterale della sala riunioni. La targa informa che questa è la Sala Fangio, in onore del leggendario pilota argentino degli Anni 50 che fece la gloria di Alfa Romeo, Maserati e Ferrari. Ancora le coincidenze del destino.

Succedere a Ecclestone non è cosa facile: primo per il paragone continuo con un personaggio leggendario. Secondo, perché oggi la Formula Uno è sotto attacco: è uno sport sporco, che inquina, con un impatto ambientale insostenibile. Domenicali sorride di fronte ai nuovi Torquemada dell’ambiente, ai talebani dell’auto elettrica: «La Formula Uno ha come sponsor le più grandi e importanti aziende al mondo, da Amazon a Rolex, da Pirelli a Lenovo. Tutte multinazionali attentissime alla reputazione e alla sostenibilità: pensa che accosterebbero il loro nome al nostro se fossimo davvero così cattivi?» La domanda è retorica; la risposta è che, contrariamente alle apparenze e alle mode di pensiero, «la Formula Uno è credibile nella sua transizione energetica verso un mondo a zero emissioni». I Gran Premi sono eventi energivori: e non solo per i bolidi che sfrecciano a 300 km all’ora. Ogni gara conta in media un pubblico di 400mila persone che si sposta, mangia e consuma. Proprio per la sua enorme visibilità globale, Domenicali sa che non può fare passi falsi: «Siamo continuamente sotto public scrutiny, sotto la lente. E questa è una garanzia per tutti gli stakeholder, i portatori di interessi».

Il problema, serio, non è tanto la sostenibilità, ma proprio la transizione energetica: «La politica non si sta comportando in modo corretto perché fissa degli obiettivi impossibili. E soprattutto in modo ideologico: l’elettrico è diventato un dogma incontestabile». Invece, è sbagliato pensare che «esista un solo modo di transizione energetica». Rottamare tutte le auto tradizionali per abbracciare solo i motori elettrici è sbagliato, per tanti motivi. «Ma come si può costringere un pensionato a spendere 30 o 40mila euro, magari tutti i suoi risparmi, perché la sua vecchia auto è improvvisamente fuorilegge e deve passare un’auto elettrica?». Auto elettrica che rimane a tutt’oggi un miraggio: nel 2035 ci saranno ancora, nel mondo, 2 miliardi di veicoli a motore termico. E tra i motori tradizionali ci saranno ancora quelli della Formula Uno: «Noi non passeremo mai all’elettrico» taglia corto Domenicali. Questo non vuol necessariamente dire che i Gran Premi inquineranno. In pochi lo sanno, ma la Formula Uno «sta sviluppando una benzina pulita, a zero emissioni», che sarà pronta nel 2026. «È un carburante che potrà anche essere usato per aerei e navi. Si può arrivare alle emissioni zero senza dover cambiare motori o buttare via tutto il parco veicoli che c’è già». Questa è davvero economia circolare.

Uno potrebbe immaginare che la tirata contro l’auto elettrica sia il leitmotiv dell’imolese trapiantato a Londra. E invece Domenicali è spiazzante, non nella schiettezza e nella vis polemica, tipicamente romagnola, ma negli argomenti. La Formula Uno passa in secondo piano: anche se le finestre affacciano sul cuore di Londra, tra Piccadilly Circus e la National Gallery, è l’Italia che il manager ha nel cuore: «Vivo all’estero orgogliosamente italiano». Senza provincialismi, però: «Da come il Regno Unito ha gestito il Covid e la morte della Regina arriva una grande lezione per l’Italia: le istituzioni non si mettono in discussione. La Gran Bretagna è lacerata da mille tensioni, Brexit in primis, che la comunità della Formula Uno non voleva, ma sul Paese nessuno è disallineato. Ammiro il loro patriottismo, figlio di valori che vengono calati dall’alto». L’Italia, invece, è l’eterno Paese «dei Guelfi e dei Ghibellini» che soffre, nel suo medievale campanilismo, le dinamiche della globalizzazione. La soluzione è banale, anche se contro-intuitiva: «Come risposta al mondo globale, l’Italia deve valorizzare le proprie radici, perché abbiamo un patrimonio millenario e immenso». Non crede nella nuova divinità del digitale che tutti oggi adorano: «Ci vogliono portare tutti nel Metaverso, ma non è un mondo reale» è l’affondo, critico, di Domenicali che ha una cura da suggerire: «Dobbiamo, come italiani, rimanere un Paese manifatturiero, che fa con le mani. La tecnologia aiuta, ma l’Italia non può abbandonare il proprio passato: siamo un Paese disallineato dai trend mondiali, siamo un Paese analogico». Analogico è il contrario di digitale, eppure «il nostro Dna ha grandi potenzialità come dimostra il successo di tanti italiani in giro per il mondo». Uno di questi è lui: a Londra, Domenicali è sbarcato appena due anni fa, in piena pandemia.

Una telefonata allunga la vita, diceva tanti anni fa un famoso spot. Nel suo caso, la telefonata arrivava dal Colorado. «Mi chiamano da Liberty Media» racconta: il colosso dello sport da 8 miliardi di dollari di fatturato del magnate John Malone, gli offriva la prestigiosa poltrona che per 50 anni era stata di Ecclestone (dopo un piccolo interregno di Chase Carey). Il gruppo americano aveva sborsato oltre 4 miliardi di dollari per comprare dal fondatore medesimo e da un gruppo di investitori (tra cui il fondo inglese Cvc) la proprietà della Fia, la società che organizza la Formula 1. Domenicali accetta: ha speso tutta la sua vita professionale e anagrafica tra motori e auto. A fine anni 80, dalla natìa Imola va a Bologna, per studiare all’università: da casa sono solo 40 km. Si laurea in Economia e fresco di diploma manda il suo curriculum alla Ferrari. «All’epoca lo facevano tutti» ricorda.

Ma, diversamente da altri, da Maranello lo chiamano e lo assumono: è il 1991. Rimarrà alla Rossa per quasi 25 anni. Si sposta ancora più a Nord ma la sua vita, fino ad allora, gravita attorno alla Motor Valley, un fazzoletto di Emilia-Romagna. In Ferrari la sua carriera è fulminea: «Inizio agli affari amministrativi, dove tenevo i rapporti con la Fiat, poi passo alla Squadra Corse» e nel 1996 diventa il Team Manager. Trascorrono 10 anni e sale a capo della Scuderia Corse. Anche lì riceve un testimone bollente: è chiamato nel ruolo, difficilissimo, di succedere a Jean Todt, l’uomo che ha riportato la Ferrari al trionfo con Michael Schumacher.

Non ha la stessa fortuna di Todt. Sotto di lui la Ferrari delude e dopo 6 anni, nel 2014, Domenicali fa una cosa che in Italia nessuno fa mai: si dimette. È l’era di Luca Montezemolo e il presidente non gli perdona i mondiali persi un soffio, da Felipe Massa nel 2009 e Fernando Alonso nel 2010. Domenicali si prende le sue responsabilità: «Onori e oneri di un ruolo importante» commenta. L’anno dell’addio a Maranello si rivela, però, anche l’anno del salto internazionale: pochi mesi dopo, lo chiama Audi: si trasferisce in Germania, ma la famiglia rimane in Italia. Dopo due anni, i tedeschi gli affidano il volante della Lamborghini altra storica casa emiliana di supercar. Ritorna a casa. Lì il potenziale di Domenicali finalmente esplode: «In 5 anni, riesco a far raddoppiare il fatturato». E proprio sulla scia di quei numeri che Liberty Media gli offre lo scettro che fu di Ecclestone. Fa di nuovo le valige: destinazione Londra, ma stavolta, spiega «mi sono portato dietro tutta la famiglia».

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