Da Jil Sander a Givenchy: osare (e lasciarsi andare) fil rouge dell’inverno che verrà
Quello che Diane Vreeland negli anni Sessanta chiamava “daring”, ma osare l'originalità sarebbe una buona partenza; le collezioni di Thom Browne e Donatella Versace
di Angelo Flaccavento
3' di lettura
Diana Vreeland, colei che per prima riconobbe e sostenne la youthquake che negli anni Sessanta avrebbe spostato l'asse dello stile sui giovani - e lì è rimasto -, ultima e istrionica sacerdotessa della moda come linguaggio delle élite - culturali in primo luogo - lo chiamava daring. È la capacità di osare, di lasciarsi andare, di lambire i territori impervi del cattivo gusto - sempre che quello buono esista. Di daring oggi c'è grande bisogno, fosse solo per resistere alla noia della socialità negata, del confino forzato e del vestire per stare in casa.
Saremo tutti impavidi, una volta tornati alla normalità? È quanto suggeriscono in questi giorni le video-sfilate parigine. Si osa - con juicio - persino da Jil Sander, tempio del più elitario riduzionismo. Lucie e Luke Meier, coniugi e direttori creativi, tessono a loro modo un'ode a individualità, libertà e cambiamento: decorano, adornano, profondono psichedelie e intagli di rose lisergiche su giacche, gonne, abiti dalle linee esatte, su stivali dal piglio marziale e seduttivo. L'immagine che riassume il nuovo movimento è il look di apertura, insolitamente sensuale: un tailleur pantaloni dall'aplomb irremissibile, con giacca senza collo indossata su un ruscellante plastron di perle naturali e basta.
Le perle di fiume le riportó in auge Phoebe Philo, non dimentichiamo. Il resto è tutto un susseguirsi di precisione ed eclettismo, in una palette notevolmente acquosa e aerea per una stagione invernale, punteggiato dagli accessori che sono puri oggetti di design. Il daring si concretizza, ma è un po' frenato in partenza dalla scelta di una lingua nella quale gli echi del vecchio Celine, e del nuovo Bottega Veneta, sono di tanto in tanto smaccati. Però c'è spirito di sintesi, e una eleganza ineffabile.
Per Thom Browne osare è normale, tanto quel che poi si trova in boutique - abiti grigi o blu, e formalità wasp in proporzioni off - è tutt'altro rispetto alla proposta di passerella. Questo aspetto bifronte è insieme il punto dolente e il punto di forza di un marchio dall'identità per certi versi unica: una disallineamento tra istrionismo estremo e rigore calvinista che spiazza non poco ma che, alla luce del continuo successo commerciale, va accettato.
Le sfilate, e i loro surrogati, servono solo a creare atmosfera, ecco; contestualizzano. Il video di questa stagione, protagonista la campionessa di sci Lindsey Vonn, è esilarante: un medley strampalato di Biancaneve, western, Mago di Oz e Grey Gardens ambientato tra montagne innevate e piste da sci. Gli abiti, intricati e perfetti come capi d'alta moda, fondono grandeur e piumini, sottogonne e trapunte, come Browne in parte fece ai tempi gloriosi della collaborazione con Moncler. È tutto un esagerare e un debordare di fiocchi, gonnelloni e bustini che, postilla in questo caso non necessaria, s'applicano pari pari al guardaroba di lui, con una verve iconoclasta che molto deve a Jean-Paul Gaultier.
Insomma, si direbbe che il daring, al momento, sia più che altro l'ardire del furto plateale di identità intere, o solo di certi stilemi, con conseguenti specchiature e distorsioni. Il nuovo Bottega, che a sua volta era partito come repeat brand di Céline ma poi ha preso una strada sua, è l'aspirazione massima: le scarpe con la suola massiccia, ormai, le fanno tutti.
Donatella Versace, che ha sfilato venerdì fuori da ogni calendario, ci mette sopra una greca, ma l'origine è chiara, e il risultato, twist ulteriore, pradesco. Il resto della collezione muove invece tra rievocazioni di momenti iconici del buon Gianni - silhouette monocromatiche e nero sessuoso - strizzate d'occhio ai collage e ai pattern del nuovo Burberry di Tisci, e un motivo a greca/losanga che urla Goyard a ogni centimetro.
Da Givenchy, il nuovo direttore creativo, Matthew Williams, pompa il volume su metalleria e spigolosità, ma rivela poca sostanza progettuale. Tra riedizioni utilitarie delle scarpe armadillo di McQueen - le calzature più copiate dagli aspiranti avanguardisti - saccheggi dell'immaginario Givenchy creato da Riccardo Tisci - tailoring affilato, sera fatale - e atmosfere fosche tra Matrix e Alexander Wang, la nuova personalità della storica maison stenta a materializzarsi, apparendo piuttosto come un collage di infiniti deja vu. Williams parla di monumentalizzazione del quotidiano, ma di davvero monumentale c'è solo il video: drammatico e incalzante, con colonna sonora techno di Robert Hood.
Questi però sono effetti speciali. Mancano allure ed eleganza. Mancano nella versione abrasiva e metropolitana per cui Williams è stato chiamato alla direzione creativa. Insomma, la strada per dare un edge a Givenchy è ancora tutta da percorrere. Osare l'originalità sarebbe una buona partenza.
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