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Sabatini (Abi): «Da Scholz un passo in avanti, ma prima serve il safe asset Ue»

Per il dg dell'Abi e presidente della Federazione bancaria europea, Giovanni Sabatini, parlare di cambiamenti delle norme prudenziali sui titoli di Stato prima di aver introdotto i safe asset europei «sarebbe controproducente». Gli obiettivi richiesti per la riduzione degli Npl «sono alla portata»

di Laura Serafini

Olaf Scholz (Ansa/Ap)

4' di lettura

L’apertura del ministro per le Finanze tedesche Olaf Scholz alla creazione di uno schema comune di assicurazione dei depositi è «un piccolo passo avanti positivo verso il completamento dell’Unione bancaria». Lo afferma il dg dell’Abi e presidente della Federazione bancaria europea, Giovanni Sabatini, secondo il quale però parlare di cambiamenti delle norme prudenziali sui titoli di Stato prima di aver introdotto i safe asset europei (titoli di debito comuni della Ue, ndr) «sarebbe controproducente». Gli obiettivi richiesti per la riduzione degli Npl «sono alla portata».

Dottor Sabatini, il governo italiano ha accolto con freddezza l’apertura tedesca. Una posizione prudente?
La proposta di Scholz è uno dei primi passi avanti positivi verso il completamento dell’Unione bancaria. Anche se ritengo che parlare di cambiamenti delle norme prudenziali sui titoli di Stato senza aver definito prima un quadro per la realizzazione di un safe asset europeo sarebbe controproducente. Una modifica del trattamento dei titoli di Stato dovrebbe essere coordinata a livello internazionale per non indebolire la posizione europea che non avrebbe più titoli privi di rischio. Per le banche, infatti, un’alternativa di investimento priva di rischio è necessaria per rispettare i requisiti patrimoniali sulla liquidità.

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La proposta tedesca include una riduzione del Npl ratio lordo al 5,5% e di quello netto al 2,5%, livelli inferiori rispetto alla performance delle banche italiane.
Ritengo che gli obiettivi posti per i rischi sul portafoglio dei crediti deteriorati siano alla portata del mondo bancario italiano. Il processo di riduzione si è sviluppato in Italia con tale rapidità e decisione che quei limiti possono essere ragionevolmente raggiunti in tempi coerenti con il completamento dell’Unione bancaria. E questo anche in considerazione delle proiezioni Abi per fine 2021: il livello medio è previsto al 5,5% per l’Npl ratio lordo contro l’8,7 % di fine 2018.

Non c’è il rischio che il peggioramento del quadro economico faccia risalire i crediti deteriorati, come sta accadendo in Germania?
Se restiamo in questo stato di stagnazione non dovrebbero esserci particolari ritorni, anche se occorre considerare uno sfasamento temporale di 6-8 mesi prima che gli andamenti dell’economia si riflettano sul tasso di decadimento dei prestiti. In ogni caso, in assenza di un forte deterioramento del quadro economico dovremmo rimanere su questi livelli. E comunque stanno entrando in vigore le regole sugli accantonamenti collegati allo scorrere del tempo (calendar provisioning). A ciò si sommano le regole contabili IFRS9 e le nuove definizioni di soglie di default che irrigidiscono le condizioni di erogazione del credito, specie nelle fasi di inversione del ciclo.

Nella proposta di Scholz ci sono altri aspetti: l’armonizzazione delle norme sull’insolvenza e l’introduzione del modello Usa (il Fdic) per la gestione delle crisi fuori dalla risoluzione, evocato anche dal governatore Visco. È d’accordo?
Sono passaggi fondamentali per un percorso graduale verso la realizzazione di Unione bancaria completa intesa come una unica realtà giuridica. Oggi le fusione bancarie cross border non avvengono perché manca l’armonizzazione di altre parti della legislazione bancaria nonostante l’istituzione del Meccanismo unico di vigilanza e del Meccanismo di risoluzione.

Questa situazione porta ad atteggiamenti difensivi anche nel rapporto tra autorità del paese di origine e dei vari paesi nei quali svolge le attività una banca. Il requisito Mrel (il cuscinetto di passività per garantire una risoluzione ordinata, ndr) di gruppo post fusione, ad esempio, per effetto dei diversi approcci delle autorità nazionali sarebbe più elevato di quanto richiesto a un gruppo extra-Ue. E poi c’è la questione dei diversi regimi di liquidazione, che classificano in modo diverso le gerarchie dei creditori.

Qual è dunque il senso del compromesso tedesco?
L’introduzione di un modello efficiente per le banche che non vanno in risoluzione che veda la liquidazione come estrema ratio, come succede negli Stati Uniti, e ponga inizialmente al centro il fondo nazionale di garanzia per gli interventi precauzionali.

Se mancano i soldi al Fondo nazionale, allora scatta il sistema europeo che è basato su accordi di rifinanziamento tra i Fondi dei vari paesi e su piani di rimborso a lungo termine. Servirà, però, un quadro normativo europeo che definisca gli strumenti che i Fondi possono utilizzare e che protegga le transazioni concluse da essi da eventuali revocatorie.

E andrà modificata la disciplina degli aiuti di Stato: una cosa sono le regole per garantire la parità di condizioni concorrenziali e un’altra sono gli interventi dello Stato per garantire la stabilità finanziaria.

Nella Ue c’è fermento per la direttiva che dovrà recepire i nuovi requisiti prudenziali di Basilea. La vigilanza europea vorrebbe un recepimento rigoroso. Lei come la pensa?
L’accordo di Basilea peserà sulle banche europee per oltre il 20% dei requisiti patrimoniali, con un impatto di oltre 135 miliardi. Le banche Usa avranno invece un miglioramento dei requisiti dello 0,3 per cento. È necessaria un’approfondita analisi di impatto: senza tradire lo spirito delle nuove misure, va però rispettato il mandato del G20 secondo il quale queste norme dovevano essere attuate senza causare generalizzati incrementi del capitale.

Leggi anche:
Unione bancaria, serve un’intesa sui rischi prima di nuove crisi

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