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Da Spalletti a «Mare fuori»: e se fosse davvero l’anno di Napoli?

Libri, serie Tv e musica danno nuovo appeal alla città, attraendo pure turisti. Ma il modello De Laurentiis resta una formidabile anomalia

di Francesco Prisco

Guanciale torna con Commissario Ricciardi: amo il suo senso etico

3' di lettura

Non è un anno banale per la città meno banale d’Italia. Lo suggerisce innanzitutto il «pallone», da sempre formidabile termometro per capire come sta veramente il Paese: il Napoli di De Laurentiis, a 12 giornate dalla fine del campionato, domina la Serie A con il mare dietro di sé, nel senso del distacco in classifica (+18). Scaramanzia permettendo, potrebbe essere l’anno del terzo scudetto ai piedi del Vesuvio. Allargando il discorso, se la squadra di Spalletti è una tra le più cool d’Europa (parola di New York Times), Napoli città ha ritrovato un appeal tutto nuovo, turistico e non solo.

Un appeal che, neanche a dirlo, ha a che fare con l’immaginario, risorsa che in riva al Golfo non ha mai scarseggiato, a essere sinceri. Gli esempi si sprecano. Vai al cinema e trovi Mixed by Erry , una specie di Soliti ignoti postmoderno che porta la firma di Sydney Sibilia. Accendi la Tv e trovi Mare fuori, serie Tv Rai giunta alla terza stagione che, dati Auditel alla mano, sta appassionando il pubblico di tutta Italia. Oppure la seconda stagione del Commissario Ricciardi, non bella come la prima secondo gli appassionati del genere, ma comunque lì a fare ascolti. Di più: pare quasi che, per fare una fiction, ci si senta obbligati a girare a Napoli, se consideriamo che addirittura 16 serie Tv degli ultimi 20 anni sono state ambientate qui, per un totale di 55 stagioni somministrateci.

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Vai in libreria e non ne parliamo proprio: trovarsi sommersi dai titoli di Maurizio De Giovanni ed Elena Ferrante è un attimo, tutti ottimamente posizionati nella classifica dei più venduti, quasi tutti trasposti o opzionati per essere trasposti su grande e piccolo schermo. Se parliamo di libri, l’ex bancario appassionato di Manuel Vázquez Montalbán e la più o meno misteriosa autrice dell’Amica geniale sono stati capaci di Dfare quanto neanche a Roberto Saviano (che con Gomorra resta una formidabile one-hit wonder) era riuscito: hanno «serializzato» il proprio successo, uscita dopo uscita, riunendo attorno alla propria scrittura un popolo di lettori innamorati della loro particolare «visione» di Napoli.

Quanto alla musica, che te lo dico a fare: l’urban, genere del momento a livello mondiale, ha trovato una propria declinazione napoletana con i vari Geolier e Luchè, senza dover scomodare Clementino che ormai appartiene a un’altra generazione. C’è Liberato, un mistero chiamato marketing, e per i palati più fini la retromania danzereccia dei Nu Genea. Per gli amanti delle arti figurative, poi, ci sono i murales di Jorit che ci scrutano dall’alto. Insomma: non c’è da stupirsi se tanti spettatori, lettori e ascoltatori negli ultimi anni stiano affollando alberghi e B&B del centro a caccia di suggestioni napoletane. Tutto molto bello, soprattutto per la filiera del turismo, non c’è dubbio.

Ma esiste una reale connessione tra questo nuovo immaginario collettivo napoletano e il modello vincente imposto dal Napoli di De Laurentiis? A grattare via la patina, tocca rispondere di no. Perché la Napoli che vediamo rappresentata nelle serie Tv (a volte nuova Medellín, altre metropoli con l’ascensore sociale sempre in servizio) è quasi sempre una rielaborazione di vecchi luoghi comuni. È nuova oleografia che si sostituisce alla tradizionale cartolina col pino marittimo, una mistificazione a uso di chi ai piedi del Vesuvio al massimo viene a farci un weekend, assaggia la sua fetta di esotismo e se ne va.

Qualcosa che non contribuisce al compimento dell’unica grande rivoluzione di cui la città avrebbe bisogno: diventare un posto normale, con servizi degni di una grande metropoli europea. Il Napoli di Spalletti, al contrario, funziona perché è qualcosa di alieno a Napoli, un’azienda familiare in cui - dettaglio non banale - a Castel Volturno, a 32 chilometri di distanza dallo Stadio Maradona, tutti i giorni lavorano 27 professionisti di 18 nazionalità diverse che tra di loro comunicano esclusivamente in inglese. Funziona perché Aurelio De Laurentiis è un «papa straniero», non l’ennesimo Masaniello da offrire alla piazza, antica specialità locale. Se vuoi trovare un pezzo di quell’approccio in città, devi andare all’Apple Developer Academy. I discorsi intorno all’eccezionalità di Napoli paradiso abitato da diavoli, alla «Grande Bellezza» e alla menzogna dorata dell’identità culturale lasciamoli fare a chi si commuove davanti a un’ala sinistra belga che chiama suo figlio Ciro.

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